Si stava meglio quando si stava metal… in Svezia!

Mi sono divertito tantissimo a partecipare al podcast Si Stava Meglio Quando Si Stava Metal, e raccontare la scena musicale metal svedese. Disponibile in video su YouTube e in audio su varie piatteforme.

Se vi interessa l’argomento, mi trovate qui!

https://podcasts.apple.com/se/podcast/si-stava-meglio-quando-si-stava-metal/id1583784969?i=1000621135559

Di obi, kanji ed album d’annata!

Capita talvolta che gli amici mi chiedano: “ma perché i tuoi vinili sono in giapponese”?

La discografia giapponese dei Rainbow

Da quando ho ricominciato ad acquistare vinili, ho infatti sviluppato la passione per un mondo di cui sentivo raccontare dai miei conoscenti collezionisti una trentina d’anni fa: le edizioni del Sol Levante.

Ma perché questi vinili sono così pregiati?

La storia è semplice: nel secondo dopoguerra, l’industria dello sconfitto Giappone cercò di sopravvivere come poteva, puntando soprattutto sulla concorrenzialità a basso costo, per prodotti di scarsa qualità e di poco pregio.

Fino agli anni ‘60, un oggetto tecnologico. “Made in Japan” era l’equivalente di un moderno “comprato su Wish”. Un marchio di ignominia per un paese che, sotto la coltre. della vergogna post-bellica, covava un forte senso di rivincita nazionale.

Nel corso degli anni ‘60, questo senso portò ad un vero e proprio colpo d’orgoglio: il Giappone decise che sarebbe diventato il paese dell’eccellenza tecnologia, e passò in tempi brevi dalle parole ai fatti.

Quelli che, come me, appartengono alla Generazione X, sono cresciuti sicuramente con il mito del Giappone all’avanguardia, dei gingilli incredibili (il Camcorder!) e nuove tecnologie che noi ci sognavano (il laser-disc!). Oltre che, ovviamente, dei robottoni animati… ma questo è un altro discorso che oggi non ci riguarda.

Probabilmente i miei due album dal vivo preferiti. Quello a destra fu pubblicato nel resto del mondo con una copertina diversa e con il titolo “Made In Japan”, ironizzando proprio sul concetto di “a basso costo” (era un vinile doppio venduto al prezzo di un singolo).

Torniamo quindi agli anni ‘60! So già che molti di voi avranno capito che il discorso di cui sopra avrà coinvolto in qualche modo anche l’industria discografica… ed è esattamente così.

A partire da quel decennio, le etichette giapponesi decisero che anche loro avrebbero iniziato a produrre prodotti di alta fascia e qualità ineguagliabile:

  1. loro non avrebbero utilizzato materiale riciclato per i dischi, ma solo vinile vergine di altissima qualità e ad alta grammatura;
  2. la copertina e gli inserti sarebbero stati fatte con i materiali migliori, senza badare ai costi;
  3. il processo di mastering sarebbe stato molto preciso e curato, al fine di ottenere un risultato più simile possibile a quello delle bobine dei master di studio;
  4. le matrici di stampa utilizzate per le presse dei vinili sarebbero state di materiale pregiato e cambiate frequentemente, evitando il fenomeno causato dall’usura per cui, dopo un certo numero di copie, le stampe cominciavano a suonare peggio.

Tutto ciò fece delle edizioni giapponesi il paradiso degli audiofili. I vinili provenienti dal Sol Levante non gracchiavano, avevano un suono spettacolare, non c’era il rischio di distorsioni e di salti della puntina… insomma, erano il modo migliore di godersi la musica!

Per un certo periodo negli anni ‘60, si sperimentò anche con un nuovo tipo di vinile rosso antistatico (everclean) che prometteva di mantenersi sempre privo di polvere. Diversi album uscirono in entrambi i formati (vinile classico e rosso) e l’acquirente poteva scegliere quale comprare. L’esperimento fu abbandonato quando ci si rese conto che questi vinili tendevano ad essere meno longevi… ma ancora adesso i vinili rossi sono molto ricercati dai collezionisti.

La qualità costa, e le case discografiche ricompensavano i loro acquirenti, che dovevano sostenere spese piuttosto alte, offrendo edizioni molto curate, che contenevano inserti con articoli giornalistici, testi delle canzoni (spesso assenti nelle edizioni europee e americane), se non poster e addirittura ammennicoli vari (come negativi di foto o collane).

Un discorso a parte merita l’obi, la “cintura” di carta con le scritte in giapponese che fasciava gli album (o la parte sinistra delle edizioni gatefold, ovvero quelle in due parti apribili a libretto): quella striscia spiegava ai molti appassionati che non sapevano leggere i caratteri occidentali chi fosse la band, il titolo dell’album, magari con l’aggiunta di qualche strillo pubblicitario. Alcuni obi erano belli e ben studiati, altri un orribile pugno nell’occhio che cozzava terribilmente con la copertina. Fatto sta che oggi l’obi è determinante per stabilire il valore di un album d’epoca: la striscia era fragile, a molti dava fastidio, e spesso veniva eliminata senza troppi rimpianti. Oggi, solo un disco che lo conservi mantiene il pieno valore collezionistico, e molti rifiutano di comprare vinili giapponesi d’epoca senza obi. D’altro canto, acquistare un album “Made in Japan” privo della fascetta è un modo per godere di tutti i pregi qualitativi delle edizioni giapponesi ad un prezzo spesso stracciato.

Perfetti esempi di pessimo ed ottimo obi.
Quello di Rising fa a pugni con la splendida copertina, quello di Strangers In The Night vi si integra perfettamente.

Come in tutto il resto del mondo, il mercato discografico giapponese fu, negli anni ‘80, sconvolto dall’arrivo del compact disc. Anzi, è proprio in Giappone che la tecnologia debuttò. Ovunque le case discografiche cominciarono ad investire nel nuovo formato, trascurando volontariamente sempre di più il vecchio per convincere gli ascoltatori alla transizione. Anche i vinili giapponesi risentirono del vento del cambiamento, anche se c’è da dire che non ci fu il crollo qualitativo sostanziale che ci fu negli Stati Uniti e in Europa. Calò la grammatura media, magari si fece sempre meno ricorso al formato gatefold, ma la qualità giapponese era sempre elevata. Intorno al 1988/89, l’industria nipponica, con qualche anno in anticipo rispetto al resto del pianeta, disse basta. Piuttosto che abbassare ulteriormente la qualità, e grazie anche all’alto livello di adozione della nuova tecnologia, il Sol Levante cessò, di fatto, la produzione degli album in vinile. Mentre nel resto del mondo si producevano ormai, per lo più, dischi scarsi di plastica riciclata, senza attenzione ad un mastering dedicato, propensi alla gracchiatura e al rumore di fondo, a Tokyo e dintorni si preferì smettere con dignità.

Piccola mini-galleria

La cura giapponese del vinile fu trasposta appieno nei compact disc, che continuarono ad avere la qualità migliore, mastering ben curati, inserti vari e (in alcuni casi) persino l’obi, ormai ridotto ad una piccola striscia di carta senza più il fascino della versione classica. Una delle caratteristiche tipiche dei cd giapponese divenne la “bonus track”, il pezzo aggiuntivo per il solo mercato locale messo lì apposta per convincere gli appassionati a non importare cd da Europa o Stati Uniti a prezzi più bassi. Inutile dire che queste bonus track causarono il fenomeno inverso, per cui i CD giapponesi venivano importati nel resto del mondo da quei fan che non volevano perdersi nessun brano dei loro artisti preferiti.

La confezione di un compact disc giapponese degli anni ’90

Il grande revival del vinile che, negli ultimi 15 anni, ha visto la rinascita del formato ha coinvolto solo di striscio il Giappone e soprattutto a livello di produzioni locali. Anche se la Sony ha annunciato nel 2017 l’avvio della stampa in proprio a Tokyo, non ho visto, almeno per le cose che mi interessano, un risorgere di obi ed edizioni particolari “Made In Japan”.

Poco importa, perché quello che conta è il fascino delle edizioni d’annata. Si trovano facilmente, dato che all’epoca la tiratura degli album era elevata, a fiere o su siti come come Discogs, Ebay o Tradera. Personalmente ho una fortuna: salvo qualche eccezione, le cose che più mi piacciono hanno costi assolutamente accessibili, soprattutto se si ha la pazienza di aspettare quell’occasione giusta che, prima o poi, arriva. Alla fine non si spende molto più che a comprare una ristampa recente, e sicuramente ne esci ricompensato: i dischi non solo sono ancora facilmente in circolazione, ma spesso sono in condizioni ottime (per evitare sorprese esistono sigle per catalogarle) e suonano ancora divinamente. Qualcuno dirà “meglio dei cd”, e probabilmente c’è anche una buona dose di autoconvinzione ed effetto placebo… però posso dire che quando metto su le mie copie di Live In Japan dei Deep Purple o Strangers In The Night degli UFO godo davvero non poco!

WHITESNAKE – Gli anni d’oro

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Se la maggior parte dei fan del rock duro conosce gli Whitesnake in qualità di aitanti semidei permanentati della scena hair metal, fautori di uno scintillante rock da arena accompagnato da videoclip con modelle-ballerine sgambate; per una fascia decisamente più ristretta di appassionati la band di David Coverdale nasce e muore come gruppo di hard blues britannico, suonato da musicisti (solo) apparentemente improbabili caratterizzati da baffoni e basettoni, cappelli imbarazzanti e magliette demenziali, e che sembravano appena usciti da un pub dell’Inghilterra del Nord.

Quelli delle origini sono, per chi scrive, i soli ed unici Whitesnake, e questo pezzo vi racconterà chi erano. Lo farà non limitandosi alle sole questioni discografiche ufficiali, ma andando anche, nella parte finale, ad analizzare l’aspetto live, quello in cui il Serpente Bianco dava davvero il meglio di sé. Se avrete voglia di seguirmi, eccoci qua!

Gli Whitesnake nascono nel momento in cui David Coverdale si decide a tornare a calcare i palchi del Regno Unito dopo i due validi (soprattutto il secondo) album solisti White Snake Northwinds. In questi dischi Coverdale svariava fra rock, rhythm & blues e funk/soul, non riuscendo sicuramente a coinvolgere appieno il nugolo di appassionati che lo ricordava ancora come cantante dei Deep Purple.
Come dice David, “non puoi fare rock’n’roll in salotto”, e per tornare a fare del rock serve la band adatta: il lavoro comincia qui!

WHITESNAKE Mk I & II – Febbraio – Luglio 1978

Foto dell’epoca Snakebite. In alto: Dowle, Moody, Coverdale, Murray. In basso: Solley, Marsden.
Autore a me ignoto.

La prima recluta della nuova band è la persona che già aveva affiancato il cantante nella lavorazione dei due album solisti: amico di gioventù ed eroe musicale di David, Micky Moody è un chitarrista di formazione rock-blues e esperto della slide guitar. Non un virtuoso e non esattamente carismatico sul palco (il suo look con i baffoni e improbabili cappelli si rivelerà un problema nel momento in cui queste cose inizieranno a contare), sarà comunque una delle pietre miliari e l’anima della band nel periodo d’oro. Certo di avere bisogno di qualcuno che fosse più in grado di catturare l’attenzione, e forse anche per evitare di doversi confrontare con un singolo ego, Coverdale decide immediatamente che gli Whitesnake dovranno avere un duo di sei-corde. Viene quindi reclutato l’ex UFO e Paice-Ashton-Lord Bernie Marsden, fantastico chitarrista dall’eccellente gusto melodico: anche lui forse non un virtuoso in senso tradizionale, ma comunque dotato di un gran tocco e autore degli assoli più memorabili del periodo. Bernie si porta dietro, dagli Hammer di Cozy Powell, il bassista Neil Murray: virtuoso, lui sì, musicista di formazione jazz-rock (vedi la sua esperienza coi Colosseum II) ma dotato anche del tiro giusto per trascinare le ritmiche di una band hard rock. Le linee groovy di Murray diventeranno uno degli elementi caratterizzanti del sound degli Whitesnake. Con Murray arriva David “Duck” Dowle, talentuoso batterista funk-rock che contribuirà in maniera positiva alla prima fase della band. Il primo tastierista, per le date live a supporto di Northwinds, è lo scozzese Brian Johnstone: durerà molto poco, sia per limiti tecnici che per problemi caratteriali. Al momento di entrare in studio viene infatti reclutato Pete Solley, discreto pianista rock’n’roll e tastierista dotato di valide idee e un approccio moderno ai sintetizzatori. Questa formazione, la Mark II, ci offrirà il primo frutto della produzione discografica del gruppo.

 

SNAKEBITE (1978)

Il primo atto in studio del Serpente Bianco è un EP di quattro pezzi che mette subito in chiaro quale sia la proposta della band: un hard rock britannico di stampo blues, che media la tradizione dei Deep Purple con quella dei Bad Company all’insegna di un sound più diretto ed accessibile. Il pezzo d’apertura Bloody Mary è un gran bel rock´n´roll, mentre la successiva Steal Away è una meraviglia incentrata sulla slide guitar: se la versione in studio  sembra avere il freno a mano tirato, dal vivo diventerà un pezzo incandescente! Ma sono soprattutto le due canzoni del lato B a fare immediatamente la storia. Ain’t No Love In The Heart Of The City è una cover di un pezzo di Bobby Bland, un brano lento che diventerà imprescindibile nel repertorio live degli Whitesnake. La loro versione ha, peraltro, un testo semplificato rispetto all’originale, per un motivo che oggi suona davvero particolare: quando Marsden la propone in studio, nessuno ha con sé una copia del disco di Bland, né il testo, e David deve quindi cantare ciò che Bernie ricorda. Internet arriverà decisamente più avanti! Il disco si conclude con Come On, solidissimo ed esaltante hard rock che sarà a lungo il pezzo di apertura dei concerti. Produce Martin Birch (Deep Purple, Black Sabbath, Iron Maiden) con un budget minimale: il risultato è buono ma i pezzi suoneranno molto meglio dal vivo!

 

Il video ufficiale di Come On. Con l’eccezione di Steal Away, tutti i pezzi dell’EP ebbero una loro versione video, con un semplice set finto-live.

Il Serpente Bianco si presenta in tour con questa formazione, e suona già convincente ed affiatato. La scaletta, oltre ai pezzi nuovi, vede il ripescaggio di quattro brani dei Deep Purple (l’imprescindibile MistreatedMight Just Take Your LifeLady Double Dealer Lady Luck), più un medley di WhitesnakeBreakdown, entrambe prese dal repertorio solista di Coverdale. Ain’t No Love In The Heart Of The CityMistreated diventano immediatamente i pezzi centrali del set: la seconda, in particolare, ci offrirà un grande assolo di Marsden, che eviterà ogni confronto con Blackmore per costruire una sua versione personale. Non è ancora la versione definitiva del pezzo (quella arriverà più avanti), ma non sfigura per nulla di fronte alle versioni di Purple e Rainbow. Solley sembra essere il punto debole del sestetto: nonostante alcune idee e scelte intriganti in fase di arrangiamento, gli manca la presenza sonora necessaria per fare la differenza. Coverdale se ne renderà conto durante le registrazioni del primo album: Pete non sembra essere particolarmente motivato, forse perché girano voci su una sostituzione prestigiosa… e quando quella sostituzione arriva, improvvisamente il Serpente Bianco fa più che mai clamore! Jon Lord subentra come tastierista a registrazioni quasi completate, re-incidendo tutte le parti del fuoriuscito. Gli Whitesnake sono ora la prima band ad annoverare due ex membri dei Deep Purple, candidandosi ad eredi della tradizione porpora.

WHITESNAKE Mk III – Agosto 1978 – Luglio 1979

Foto promozionale da Lovehunter.
Marsden, Coverdale, Moody, Murray, Lord, Dowle. Autore: Fin Costello.

 

TROUBLE (1978)

Il primo album degli Whitesnake esce nell’ottobre 1978, ancora una volta prodotto da Birch, e sorprende molti con un feeling bluesy più intimista rispetto a quanto atteso. Diversi fan, abituati a performance dal vivo super-energiche, restano delusi da un disco che non ha l’impatto e l’atteggiamento hard rock che ci si aspettava, magari anche a paragone delle contemporanee uscite (ricordiamo che era ancora accesa la caccia al titolo di “eredi dei Deep Purple”) di Rainbow e Gillan. Ma Trouble è davvero un gran disco, che inizia con una Take Me With You tirata e dai vaghi echi zeppeliniani (diventeranno molto più marcati nelle versioni dal vivo) e continua con pezzi come la maliziosa Love To Keep You Warm e la beffarda Lie Down. I testi di Coverdale sono pienamente inquadrati sui temi di quella malizia sensuale che gli attireranno sempre più critiche, ma anche più ammirazione, con il crescere del successo commerciale della band, ma tutto funziona alla perfezione. La cover di Day Tripper dei Beatles rilegge il brano in chiave funky, e lascia a Marsden lo spazio per un assolo di voice-box. Nighthawk (Vampire Blues)  mostra  l’anima più jazz rock del sestetto, mentre The Time Is Right For Love è il primo grande hard rock shuffle del repertorio del gruppo, ed uno dei migliori della loro discografia. Con la titletrack entriamo nell’olimpo dell’hard blues: un lento drammatico dove l’influenza dei Free di Paul Rodgers è forte, ma caratterizzato alla grande dalle belle armonie vocali e dall’intensità strumentale. Belgian Tom’s Hat Trick è uno strumentale con influenze blues e jazz-rock, dove l’organo di Lord ha la possibilità di splendere brevemente: dal vivo il pezzo diventerà una cavalcata esaltante che farà muovere la testa al ritmo delle fughe strumentali. Free Flight, cantata da Marsden, è un altro pezzo con influenze jazz-rock e, pur a suo modo trascinante, non è oggettivamente granché. Il disco si conclude con Don’t Mess With Me, un brano  tirato e pesante di hard blues in cui Coverdale può tirare il meglio del suo atteggiamento da macho, e sicuramente un modo eccellente di concludere un lavoro che, nel momento della sua uscita, non viene apprezzato come avrebbe potuto, ma che in futuro sarà stabilmente annoverato fra i classici della band.

 

Apparizione in playback al Top Of The Pops. Curiosa la mise à la Angus Young di Marsden

Gli Whitesnake vanno in tour con Lord, e la differenza è immediatamente evidente: il “peso” dell’hammond di Jon arricchisce i pezzi e la band ha decisamente una marcia in più. La scaletta si svecchia parzialmente del repertorio Purpleiano (solo Mistreated Might Just Take Your Life rimangono stabilmente in scaletta), e i nuovi brani fanno immediatamente un’ottima figura. In questo tour viene registrato Live At Hammersmith, originariamente pubblicato solo in Giappone, e in seguito incluso nella versione europea di Live… In The Heart Of The City. Ma avremo modo di parlarne più avanti! 

LOVEHUNTER (1979)

Non si può dire che la band non recepisca il messaggio, e il nuovo album Lovehunter dà ai fan esattamente ciò che chiedevano: un perfetto lavoro di hard rock di stampo blues, destinato a lasciare un segno importante nella storia del genere! Certo, riuscire a catturare in studio l’energia live della band resterà comunque una chimera irraggiungibile, ma Birch riesce comunque a fare un ottimo lavoro nel confezionare un disco solido e ben rifinito, che valorizza le doti della band nel comporre gioielli di rock duro accessibile. L’album si apre con Long Way From Home, un pezzo energico e radiofonico dalle azzeccate armonie, anche se la voce da macho di Coverdale spazza via ogni tentazione AOR: nonostante il potenziale, non riuscirà a conquistare le classifiche e non entrerà neanche nel repertorio live della band. Discorso praticamente opposto per la successiva Walking In The Shadow Of The Blues, che diventerà il brano-manifesto del gruppo: un’esaltante cavalcata hard-blues con un testo spettacolare che è una vera dichiarazione di intenti. Non uscirà come singolo, ma diventerà comunque uno dei brani più popolari. La cover di Help Me Thro’ The Day di Leon ci restituisce l’anima più intimista e romantica di Coverdale, ma le successive Medicine Man You ‘n’ Me ci riportano a del grande energico hard rock. Mean Business è un pezzo tirato che permette a Lord di splendere su un assolo spettacolare. L’accusa di non avere sfruttato appieno le capacità di Jon, relegandolo al ruolo di comprimario, è una delle più frequenti che vengono mosse agli Whitesnake… ma, anche in questo ruolo, Jon riesce a brillare negli arrangiamenti e nelle occasioni in cui gli viene lasciato spazio. Lovehunter, il brano, è un nuovo classico da antologia, stomp sinuoso ed esaltante incentrato sulla slide guitar di Moody. La veloce e cadenzata Outlaw lascia ancora spazio alla voce di Marsden, mentre Rock’n’Roll Women sembra quasi portarci ai tempi di Chuck Berry. Menzione speciale per il brano finale: We Wish You Well è una ballad pianistica scritta apposta come saluto ai fan da diffondere alla fine di ogni concerto. Quando le registrazioni sono complete, un altro cambio importante avviene all’interno della band: Ian Paice è alla ricerca di un impiego, Jon Lord (che è anche suo cognato) gli ha parlato molto bene del Serpente Bianco e l’ex Deep Purple, dopo avere provato per i Gillan, decide di proporsi a Coverdale, che non può non accettare. Al pur valido “Duck” Dowle viene quindi chiesto di lasciare. Coverdale vorrebbe fare reincidere le parti di batteria a Ian, come già successo con le tastiere di Lord su Trouble… ma il management non ci mette i soldi, e quindi Dowle riesce a mantenere un minimo di gloria sui solchi discografici di un album entrato nella storia. Quando viene annunciato il disco, la spettacolare copertina di Chris Achilléos fa scalpore, attirando sulla band le polemiche delle femministe. Ma Coverdale è ben determinato a continuare sulla sua strada!

 

Quello che doveva essere il video di Long Way From Home ha una storia davvero particolare: il regista aveva frainteso il titolo in Long Way From Rome e aveva preparato un set con colonne romane e grappoli d’uva. Quando la band si presentò, la tensione salì alle stelle, con la band che non capiva cose volesse rappresentare il regista, fino al chiarimento sull’equivoco del titolo. Come si può vedere: Coverdale è incazzatissimo, Marsden ride per tutto il tempo e Paice sembra non sapere cosa fare con le parti di Dowle. Probabilmente anche per questo motivo il video non fu utilizzato all’epoca, contribuendo, probabilmente, al flop del brano.

 

WHITESNAKE Mk IV – Luglio 1979 – Dicembre 1981

La formazione classica: Coverdale, Marsden, Murray, Paice, Moody. In basso: Lord.
Autore a me ignoto.

Con l’ingresso di Paicey si crea quella che è considerata la formazione classica per eccellenza degli Whitesnake. La presenza di tre ex Purple cattura l’attenzione dei fan, e accende sempre più la rivalità con i Rainbow di Ritchie Blackmore (più Roger Glover) e i Gillan di Ian Gillan. In particolare con i primi la situazione diventerà parecchio tesa, soprattutto quando Coverdale riterrà che, con la svolta commerciale di brani come All Night LongSince You Been Gone, l’Arcobaleno abbia effettuato uno sconfinamento nel campo musicale del Serpente Bianco.  Ma la band di David è comunque in ascesa, ha un ruolo da vice-headliner al festival di Reading, ed è sempre più avviata a conquistare il cuore dei rocker britannici. Per quanto Dowle fosse un buon batterista, Paice è un treno di energia e conduce la band verso la perfezione. Ad ascoltare le registrazioni, questo è un gruppo che si diverte a suonare, e la cosa fa sicuramente la differenza: vedere il serpente bianco in questo periodo doveva essere una goduria, fra tiro dei pezzi, groove, un cantante stellare e spazio a forme di espressioni personali (in questo periodo Jon inizierà a stuzzicare i vecchi fan infarcendo il suo assolo di riff purpleiani). La band ha fame, e a neanche due mesi dalla pubblicazione di Lovehunter, è già in studio per iniziare a lavorare sul suo successore.

READY AN’ WILLING (1980)
Le opinioni su quale sia il migliore album della band possono certamente variare, ma bisogna anche riconoscere che, oggettivamente parlando, Ready An’ Willing è un lavoro praticamente perfetto. Il disco si apre con uno dei classici più grandi, quella Fool For Your Loving che diventerà il  primo hit della band e uno dei momenti imprescindibili dell’esperienza live. Questa versione originale è semplicemente insuperata: l’intro di tastiere, il riff caldo, la voce imperiosa, il basso pulsante, le grandi armonie, la batteria groovy, il delizioso assolo di Marsden… un puzzle che si incastra alla perfezione in un gioiello di hard blues! Sweet Talker è trascinante e renderà al meglio dal vivo, mentre la titletrack è un capolavoro di hard rock funkeggiante con un ritornello caldo e sinuoso. Con Carry Your Load e Blindman  ritorniamo nell’ambito dei blues lenti. La prima mostra ancora una volta tutta l’influenza dei Free di Paul Rodgers; la seconda è, invece, un rifacimento di un brano già apparso nel primo solista di Coverdale: questa nuova versione è più scarna e rock, con una intro che, fino a questo momento, era appartenuta alle versioni live di Mistreated. Ain’t Gonna Cry No More è probabilmente la gemma del disco: un blues semiacustico dal crescendo spettacolare, su cui Coverdale può ribadire tutta la sua grandezza. Nel finale la band ha la possibilità di esprimere tutti i propri colori musicali con il blues beffardo di Love Man, con il boogie rock di Black And Blue e con la tirata She’s A Woman, dominata da un Lord in stato di grazia. Birch alla produzione compie ancora un lavoro magnifico, mentre David decide di evitare ogni polemica allestendo lui stesso una copertina molto scarna rielaborando una foto promozionale dell’epoca Lovehunter: sì, lo “Ian Paice” della copertina è in realtà David Dowle ridisegnato a mano dalla sapiente mano del cantante!

 

Il video ufficiale di Fool For Your Loving. La perfezione.

Il Serpente Bianco va subito in tour, e uno dei momenti principali è rappresentato dalla doppia data di concerti di giugno all’Hammersmith, che saranno registrati per Live… In The Heart Of The City. In questo tour debutta la versione definitiva di Mistreated, con una nuova drammatica intro di piano e chitarra che viene poi re-incorporata nella parte centrale. Nel finale del brano arriva anche (già dal tour precedente) una versione per voce e organo di Soldier Of Fortune, molto simile a quella degli ultimi concerti dei Deep Purple Mk IV.  Altro momento chiave del tour è la nuova partecipazione, questa volta da headliner, a Reading Rock, per un festival ormai completamente dominato dai grandi dell’hard rock e di una scena NWOBHM in piena esplosione: con i Gillan vice-headliner della prima giornata e con i Rainbow a capo del primo Monsters of Rock, la rivalità fra le tre band è ormai ai massimi livelli. Quello che però funziona molto bene a livello di successo con il pubblico britannico (l’album arriva al sesto posto delle classifiche), lo fa decisamente meno nel resto del mondo .La colpa è in buona parte del management di John Coletta e della sua Sunburst: come già ai tempi dei Deep Purple, Coletta si dimostra inadeguato, più interessato ad incassare soldi e sfruttare la band che a promuoverla e tutelarla adeguatamente. In casa propria la band riesce a conquistare il pubblico locale grazie al duro lavoro, ma all’estero è tutto più difficile: un male assemblato tour a supporto dei Jethro Tull porta finalmente gli Whitesnake negli USA di fronte all’audience sbagliata, cosa che non permette, ovviamente, di avere un reale ritorno dall’operazione. La cosa più importante è che l’arrivo del successo domestico non è ricompensato in termini economici: Coletta è un buco nero che assorbe tutto, lasciando le briciole alla band. Sul palco i musicisti si divertono ancora tantissimo (e continueranno a farlo fino alla fine), l’affiatamento è comunque sempre elevato, ma cominciano ad emergere le prime crepe nella soddisfazione generale dei musicisti. Pur in questa situazione, comunque la band non mostra alcun segno di cedimento artistico, e si permette di consegnare alla storia l’album dal vivo che li consacra in maniera definitiva.

Whitesnake @ Reading 1980.
Foto di Andrew King, Licenza CC-BY-SA

 

LIVE… IN THE HEART OF THE CITY (1980)

L’inevitabile consacrazione live arriva con un doppio album segnato da una copertina tanto finta quanto iconica. Per l’occasione si decide, anziché pubblicare un set integrale recente, di lasciare fuori diversi brani e di utilizzare il secondo disco per ristampare in Europa quel Live At Hammersmith che era uscito solo in Giappone. Il suono scintillante (cortesia del solito Martin Birch) e la qualità delle performance sono sicuramente di altissimo livello. I pezzi dell’epoca Dowle con Paice alla batteria guadagnano inevitabilmente in grinta e tiro, e l’album è sicuramente spettacolare e degno di essere annoverato fra i grandi live del decennio. Ma c’è un grande “ma”. Diciamolo senza volere ferire tutti quelli che hanno amato e amano tuttora questo live (sottoscritto incluso): i concerti degli Whitesnake del periodo sono comunque meglio di quello che possa trasparire dai solchi di questo doppio album. La scelta di lasciare fuori tutti i brani con le parti strumentali, l’assurdità di escludere la versione definitiva di Mistreated (per includere quella, pur valida, del tour di Trouble), il suono fin troppo rifinito (sì, ci furono delle sovraincisioni minori) impediscono di catturare appieno lo spirito live della band, la sua capacità di divertirsi, la sua energia. Il disco con Dowle andava sicuramente pubblicato in Europa, e ci dà l’opportunità di ascoltare Trouble Lie Down in versione ufficiale live, ma gli altri pezzi sono inferiori alle versioni successive con Paice. E sarebbe stato preferibile pubblicare quelle. Però, sia chiaro, Live… In The Heart Of The City resta un grande live, ed è un grande tassello nella discografia della band.

COME AN’ GET IT (1981)
Il tempo di niente e gli Whitesnake sono già in studio, pronti a lavorare al successore di Ready An’ Willing. Dare seguito ad un album praticamente perfetto sarebbe stata dura per chiunque, ma questa band, ancora euforica per i risultati ottenuti nell’ultimo periodo, riesce a non deludere le aspettative, e Come An’ Get It è un altro gran lavoro con classici memorabili. La titletrack apre il disco con un ritmo groovy magnificamente dettato da Paice e con un Coverdale strepitoso ammaliatore sensuale, per una rielaborazione propria dell’archetipo rappresentato da All Right Now dei Free. Con Hot Stuff si va nell’ambito dei pezzi tirati dominati da un grande assolo di Lord: forse ormai una soluzione sicura per la band, ma una soluzione che riesce sempre bene. Don’t Break My Heart Again è un nuovo grande hit, pezzo drammatico e pesante incentrato su un basso pulsante e su belle armonie di chitarra sul ritornello. Lonely Days, Lonely Nights rappresenta un altro approdo sicuro per la band, quello del blues-rock lento e drammatico, ma la performance è ancora una volta magnifica. Wine, Women an’ Song è uno dei pezzi più euforici del disco: uno strepitoso boogie rock che dal vivo diventerà uno dei momenti più esaltanti del set. Con la grande Child Of Babylon torniamo su temi drammatici, e siamo sicuramente di fronte ad uno dei momenti migliori dell’album, mentre con Would I Lie To You ritorna il Coverdale più beffardo e sardonico: il pezzo sarà pubblicato come singolo ma, per evitare la possibile censura della BBC, la battuta finale “just to get in your pants? I think so!” presente nell’album verrà lasciata fuori. Girl è un blues rock malizioso e sensuale, mentre Hit an’ Run è un altro brano tirato e vitale, a testimonianza del fatto che Come An’ Get It è fondamentalmente un album dettato dal buon umore. Conclusione con ‘Till The Day I Die, altro blues semi-acustico sulla scia di Ain’t Gonna Cry No More che suggella perfettamente un altro grande lavoro.  Produzione, ancora una volta, di Martin Birch, ma questa è l’ultimo disco in cui “la vespa” sarà coinvolto appieno.

 

Don’t Break My Heart Again: come si può vedere, all’epoca non c’era molta fantasia nei video ufficiali della band.

La band va di nuovo in tour, contribuendo a portare l’album al secondo posto delle classifiche britanniche, ma questa volta i problemi con il management iniziano a farsi più seri. Se, in patria, le cose vanno sempre alla grande (gli Whitesnake saranno vice-headliner a Donington, suonando prima degli Ac/Dc), continua a mancare il riscontro economico per gli sforzi effettuati. Un altro tour americano male allestito vedrà il Serpente abbandonare prima del previsto il suo posto di “farcitura” di un “heavy metal sandwich” (parole di Coverdale) con Iron Maiden e Judas Priest. La situazione è deprimente, anche se dal vivo nessuno può rendersene conto: sul palco la band è sempre esaltante, si diverte e fa divertire con  un grande set di brani scelti da tutta la discografia, più le solite Mistreated/Soldier of Fortune Breakdown/Whitesnake. Al momento di entrare in studio per il successore di Come An’ Get It, però, l’euforia è finita, e i problemi iniziano ad emergere ed intaccare anche l’aspetto artistico. Martin Birch è ormai impiegato a tempo quasi pieno dagli Iron Maiden, e preferisce, in seconda battuta, impegnarsi con i Black Sabbath, che pagano sicuramente meglio di quanto non faccia Coletta. Al suo posto arriva Guy Bidmead, fresco della produzione del solista di Marsden, ma non c’è lo stesso feeling: Birch era a tutti gli effetti un membro aggiunto della band, e aveva un’alchimia particolare con i musicisti. Durante la registrazione insorgono altri problemi: Paice va incontro ad un blocco psicologico e ha difficoltà a creare le sue parti di batteria; sarà una fase che condizionerà a lungo il batterista negli anni a venire, con Ian che semplificherà notevolmente il suo stile. Come se non bastasse, Moody ormai non crede più nel progetto e lascia la band nel mezzo della fase finale della lavorazione. È la fine della formazione classica: a disco quasi completato, Coverdale decide che l’unico modo per liberarsi di Coletta è di non avere più una band. In una riunione a sorpresa, Marsden, Murray e Paice vengono informati di essere, con effetto immediato,  fuori. La band non esiste più, e David continuerà con il solo Lord e dei nuovi musicisti con cui portare in tour il disco, ma solo dopo una fase di pausa per permettere (con una notevole buonuscita) di concludere le questioni contrattuali con Coletta.

SAINTS & SINNERS (1982)
Con queste premesse, sarebbe quasi impensabile sperare che possa uscire qualcosa di buono, eppure Saints & Sinners va al di là di ogni aspettativa, includendo fra l’altro due dei classici più grandi della band. Il disco si apre con Youngblood, pezzo trascinato da un grande riff di chitarra e dal groove batteristico di Paice, seguita a ruota da una Rough an’ Ready adrenalinica e euforica. Bloody Luxury continua sempre all’insegna di grande energia con un boogie-rock martellante, e solo con una Victim Of Love dal riffing zeppelinano e dal ritornello da anthem il ritmo cala leggermente. Crying In The Rain è uno dei due classici epocali del disco: un blues drammatico e cadenzato con un grande assolo centrale di Marsden. Dal vivo sarà destinato a prendere il posto di Mistreated e, in futuro, Coverdale la traghetterà nel nuovo corso reincidendola in una nuova versione. Here I Go Again è, sicuramente, il pezzo più conosciuto della band: una power ballad introdotta magistralmente da Jon Lord e interpretata magnificamente da Coverdale. Le armonie vocali e il misurato assolo di Marsden completano il quadro di un brano splendido. Il singolo di questa versione sarà pressoché ignorato ma, quando David re-inciderà il brano per il mercato americano, gli Whitesnake scaleranno le classifiche mondiali. Ognuno avrà i suoi gusti ma, a giudizio di chi scrive, le versioni di Saints & Sinners dei due pezzi sono superiori, più calde e coinvolgenti, rispetto a quelle più scintillanti e metalliche che renderanno la band famosa ovunque. Love An’ Affection ci offre un riff à la How Many More Times (Led Zeppelin), su cui si innestano un pre-ritornello e un ritornello davvero coinvolgenti: anche questo brano è euforico e trascinante, e nulla fa pensare al fatto che in studio la situazione potesse essere deprimente. Rock’n’Roll Angels è un altro brano sinuoso con un coro da pub, l’ultimo che sentiremo in questo stile da parte da parte del Serpente Bianco, mentre Dancing Girls è più tirata è aggressiva: anche qui il semplice ritornello la fa da padrone in termini di coinvolgimento, e il breve assolo di Lord è un gioiellino. Finale affidato ad una titletrack maliziosa e groovy, buon suggello di un disco che non lascia  trapelare nulla della crisi interna alla band. A causa del cambio di musicisti, e della pubblicazione di videoclip in cui i nuovi arrivati mimano l’esecuzione dei brani, molte enciclopedie e riviste hanno a lungo accreditato l’album alla nuova line-up della band… ma basta ascoltare la batteria di Youngblood per rendersi conto di chi suoni veramente! L’unico contributo fornito dai nuovi è da trovare nei cori di Mel Galley, registrati da un Martin Birch richiamato all’ultimo momento da Coverdale per completare le parti vocali e curare il mix finale del disco.

 

Here I Go Again. Playback dei nuovi membri, sulla musica suonata dai vecchi. Diventerà un classico!

WHITESNAKE Mk V – Ottobre 1982 – Dicembre 1983

Foto promozionale della formazione di Slide It In. Powell, Galley, Lord, Coverdale, Hodgkinson, Moody.
Autore a me ignoto.

Anche se Coverdale smentisce la cosa con un comunicato ufficiale, gli Whitesnake sono di fatto sciolti, il cantante si libera del contratto con Coletta e inizia, con calma, la ricerca di nuovi musicisti con cui portare in tour Saints & Sinners. Il primo tassello è Jon Lord, cui viene chiesto di rimanere: Jon è deluso, ferito per l’allontanamento dell’amico e cognato Paice, e valuta le sue opzioni. Alla fine decide di restare per un po’, probabilmente sapendo già che nel suo futuro ci sarà l’inevitabile reunion dei Deep Purple Mk II. L’idea di David è di trasformare la band in un supergruppo con nomi ultranoti della scena hard rock. La prima recluta è Cozy Powell, il poderoso batterista noto per il suo passato con Rainbow e Michael Schenker Group. Per i due chitarristi, Coverdale punta davvero in alto, corteggiando sia Gary Moore che Michael Schenker. C’è anche un approccio a Jimmy Page ma, in questo caso, si parlerà della possibilità di una collaborazione fra i due e non, ovviamente, del possibile ingresso di Jimmy negli Whitesnake, ipotizzato da certa stampa britannica. La collaborazione si realizzerà poi una decina d’anni dopo. Alla fine, il cantante si renderà conto di dovere ridimensionare le proprie ambizioni, e il primo chitarrista reclutato è… Micky Moody, che viene convinto quindi a tornare nel suo ruolo.

Il comunicato con l’annuncio della nuova formazione.

A prendere il posto di Marsden è un nome noto, sì, ma sicuramente non di rilievo: Mel Galley, già nei Trapeze di Glenn Hughes, viene scelto grazie ai demo che dimostrano la sua capacità di scrivere solidi brani hard rock, nella direzione che Coverdale vuole intraprendere. Il suo stile come chitarrista solista è decisamente più nervoso e rock, rispetto a quello  fluido, bluesy e melodico del suo predecessore. A dimostrare il fatto che, a questo punto, ogni velleità di costruire un supergruppo di nomi noti è stata messa da parte, al basso viene reclutato il sessionman di estrazione jazz-rock e blues Colin “Bomber” Hodgkinson che David ha avuto modo di apprezzare su diversi album: il cantante è impressionato dalle sue capacità da virtuoso e dal fatto che utilizzi il plettro, producendo un sound metallico più vicino a quello di Glenn Hughes rispetto a quello di Murray. Ma Hodgkinson si rivelerà una scelta sbagliata: per lui quello con gli Whitesnake è un lavoro come un altro, la musica suonata dalla band gli interessa poco, e sul palco tenderà ad eclissarsi in un angolino, un corpo estraneo rispetto al resto della band. L’album esce finalmente nel Novembre 1982, undici mesi dopo lo scioglimento della band che lo aveva suonato, e i nuovi Whitesnake vanno in tour per promuoverlo. Il feeling dei brani è decisamente diverso: Powell ci mette tutta la sua energia, e i brani vengono tutti accelerati. In alcuni casi anche troppo: i pezzi più groovy, come Ready An’ Willing, perdono parecchio. Galley è un chitarrista solido, ma anche decisamente più ruvido rispetto a Marsden. Ci sono ancora momenti di divertimento, ma l’umore generale è diverso anche se professionalmente la band è impeccabile, una vera e propria forza della natura. Il tour europeo va decisamente bene, e ormai la situazione sembra solo rosea. Dal set sparisce Mistreated, sostituita da Crying In The Rain, e il breve accenno a Soldier Of Fortune è ormai l’ultimo legame con il passato porpora di Coverdale e Lord. Here I Go Again diventa immediatamente un nuovo classico, e non uscirà mai più dal set. Nell’agosto 1983 la band raggiunge l’apice con la partecipazione da headliner al Monsters of Rock di Donington: per festeggiare l’occasione viene eseguita per l’ultima volta Mistreated e viene presentata la nuova Guilty Of Love, pubblicata come singolo e destinata ad essere inclusa nel nuovo album.
La band inizia anche la lavorazione del nuovo disco: ma anche in questa occasione non mancano i problemi. Eddie Kramer, il produttore scelto, si rivela non all’altezza della situazione, e Coverdale si trova in difficoltà a registrare le parti vocali. Moody non crede più nella band e contribuisce molto poco, mentre Hodgkinson conferma il suo disinteresse generale in una musica che non gli interessa, e si limita a fare il professionista senza essere felice della situazione. Alla fine, a cercare di salvare la situazione arriverà ancora una volta Martin Birch: l’album viene finalmente pubblicato ma, come già per il precedente, la line-up che lo ha suonato non esiste già più.

SLIDE IT IN – Versione UK (1984)

Slide It In esce nel Regno Unito nel Gennaio 1984, con il mix finale del solito Martin Birch. Il disco si apre con Gambler, gran pezzo drammatico e cadenzato sorretto dal riffing di Galley e magistralmente interpretato da un Coverdale in stato di grazia. La titletrack Slide It In è un brano ruffiano e trascinante, perfettamente costruito su batteria e chitarra e con un testo che porterà molte critiche al cantante, ormai accusato dalla stampa inglese di avere superato ogni limite del buon gusto nei suoi doppi sensi a sfondo sessuale. Standing In The Shadow è una canzone dal gran potenziale, che però non viene pienamente espresso in questa edizione del disco, mentre con Give Me More Time ci ritroviamo di fronte ad un hard rock rocciosissimo in cui, ancora una volta, il riffing di Galley la fa da padrone. È con le due successive canzoni, però, che la band piazza i due veri colpi da maestro: Love Ain’t No Stranger inizia come un lento per organo e voce, prima di esplodere in uno strepitoso hard rock drammatico e tirato, per il capolavoro assoluto del disco; Slow An’ Easy è invece il canto del cigno artistico di Moody, un pezzo incentrato sulla sua slide guitar (invero molto simile a quella della versione dei Led Zeppelin di In My Time Of Dyin’) su cui Coverdale imbastisce un’interpretazione emotiva sublime. Spit It Out All Or Nothing sono altri due pezzi rocciosissimi sempre figli della perfetta partnership Coverdale/Galley, con il testo della prima a lasciare ancora una volta perplessi i detrattori dei doppi sensi portati all’estremo. Finale all’insegna dell'”amore” con due composizioni a firma Coverdale: la sleazy Hungry For Love e una trascinantissima Guilty Of Love, con armonie di chitarra degne dei migliori Thin Lizzy. Menzione speciale, infine, per la bonus track giapponese: una cover di Need Your Love So Bad di Mertin John Jr per soli organo e voce, per un’interpretazione davvero da brividi. Slide It In è sicuramente l’album più hard rock degli Whitesnake degli anni d’oro: il songwriting è di altissimo livello, con brani grintosi e coinvolgenti… ma bisogna dire che qualcosa, in questa versione del disco, non funziona appieno. Forse lo scarso coinvolgimento di un Moody e un Hodginkson molto poco motivati, forse la scarsa comprensione della nuova direzione da parte di un Martin Birch chiamato troppo tardi a cercare di risolvere la situazione, non permettono alle canzoni dell’album di brillare come avrebbero potuto. Verrebbe da dire “peccato!”, se non fosse che ci sarà una seconda occasione per mettere a posto le cose!

WHITESNAKE Mk VI – Dicembre 1983 – Aprile 1984

Foto promozionale dell’edizione americana di Slide It In: Murray, Sykes, Powell, Coverdale, Lord, Galley.
Autore a me ignoto.

Già prima dell’inizio della lavorazione di Slide It In, Coverdale, ormai liberatosi dell’incompetenza di Coletta, si guarda attorno alla ricerca di un contratto americano. La band cattura, in particolare, l’attenzione della Geffen e del suo scopritore di talenti John Kalodner: Kalodner resta folgorato dalla voce del cantante, dalla sua presenza scenica e dai brani del gruppo, ma ha problemi con un sound che considera troppo vecchio e, soprattutto, con i musicisti che compongono la band, che considera inadeguati in termini di presenza scenica. In particolare, Kalodner ha un avversione per i “tipi con i baffi” (Moody, Hodgkinson e Lord) che considera invendibili in termini di immagine in una scena in cui i Van Halen e David Lee Roth sono i punti di riferimento. A togliere parzialmente le castagne dal fuoco arrivano il secondo addio di un Moody demotivato dalle scelte stilistiche e il siluramento di un Hodgkinson considerato una zavorra sotto ogni punto di vista. A contribuire in buona parte a risolvere la situazione, arrivano le scelte successive di Coverdale: al basso viene richiamato Neil Murray, che  riporterà il suo carisma scenico e la sua competenza musicale nella band, ma la scelta fondamentale è quella che riguarda la chitarra! David si innamora musicalmente di John Sykes, chitarrista proveniente dai Tygers Of Pan Tang che ha appena provveduto a rivitalizzare i Thin Lizzy nel loro ultimo album e tour. Sykes è tutto quello che Coverdale e Kalodner cercano: alto (in diverse foto promozionali verrà però “abbassato” per non far sfigurare il leader), aitante, biondo, virtuoso, dotato di uno stile chitarristico moderno adatto ad imporsi nell’epoca dei guitar hero. Quello che serve per provare a sfondare negli USA! Molti vecchi fan non apprezzeranno il suo modo di suonare, considerato tutto apparenza e niente sostanza, ma a David la cosa non interessa: i vecchi fan sono ancora pochi rispetto a quelli che lo aspettano dall’altra parte dell’oceano! Per Kalodner non siamo ancora nella situazione ideale (c’è ancora Lord, con il suo pizzetto ingrigito e il suo vetusto hammond), ma ogni esitazione è ormai alle spalle. Il problema, a questo punto, è di rendere Slide It In presentabile per il mercato americano!

SLIDE IT IN – Versione USA (1984)
Serve la persona giusta, e la persona giusta arriva, nella figura di Keith Olsen: il produttore sa cosa serve per ottenere il successo a stelle e strisce, e sa dove mettere le mani. Per prima cosa, vengono chiamati i due nuovi membri. Murray reincide le parti di basso del disco, rivitalizzandolo con il suo stile convinto e pulsante. Anche Sykes ha la possibilità di metterci del suo, rimpiazzando alcuni assoli (sia di Moody che di Galley) e re-energizzando alcuni riff. Olsen riesce così a fare un miracolo, aggiungendo potenza e dinamica ad un disco che suonava piatto e cupo. Anche l’ordine delle canzoni viene riarrangiato per ottenere un impatto maggiore, con Slide It In messa in apertura, seguita dai due pezzi forti Slow An’ EasyLove Ain’t No Stranger. Tutto suona notevolmente meglio, e improvvisamente l’album si rivaluta. Basti pensare ad una Standing In The Shadow, che messa ora a conclusione del disco e rinfrescata nel sound, convince ora finalmente appieno. La cosa più importante è che Coverdale ha finalmente ottenuto ciò che voleva. L’America si accorge degli Whitesnake, e finalmente cominciano ad arrivare i ritorni economici tanto attesi!

 

Arriva finalmente il budget per fare qualcosa di diverso ma, nel frattempo, non ci sono già più due membri della band.

LA FINE (1984)

Sembra una barzelletta ma, per la terza volta di fila, al momento dell’uscita del disco la band che l’ha registrato non esiste più. Succederà ancora, e la cosa non impedirà a Coverdale di raggiungere l’apice commerciale della sua carriera, ma questa non è una storia che racconteremo qui. Quello che accade in questa occasione è che Galley si infortuna seriamente ad un braccio ad inizio tour. Resterà per un breve periodo come un membro ufficiale della band, ma gli Whitesnake si esibiranno senza di lui con un solo chitarrista: una volta verificato che Sykes sarà in grado di continuare il tour da solo, Mel sarà licenziato ufficialmente, senza suonare mai più con la band. È ipotizzabile che Kalodner sarà ben felice della cosa, visto che il look operaio di Galley poco si adatta alle sue idee. In aprile, più o meno in coincidenza con l’uscita americana dell’album, Lord lascia: è ormai chiaro che il suo ruolo sarebbe quello di “orchestrina portatile”, e c’è la reunion dei Deep Purple che lo aspetta. Meglio così per tutti. Visto che le tastiere non sono cool sarà rimpiazzato da un tipo anonimo che suonerà felicemente dietro il palco parti plasticose di orchestrina portatile. Niente più persone coi baffi, David Coverdale continuerà la sua strada verso lo stardom, e ci riuscirà facendo comunque grande musica. Ma gli Whitesnake, intesi come band, muoiono qui: da questo momento in poi ci sarà un progetto che porta lo stesso nome e che ruota attorno al suo leader, come una giostra (qualcuno l’avrebbe chiamato “roundabout”) di musicisti intercambiabili. Purché belli o, almeno, con l’immagine giusta. Lunga vita agli Whitesnake! 

LIVE BITES

Abbiamo già anticipato come, per raccontare al meglio gli Whitesnake, non si possa prescindere da un’analisi dell’evoluzione live della band. In questa sezione, discuteremo quindi pubblicazioni ufficiali e non, per avere un quadro completo di quello che è stato il Serpente Bianco.
Nota: per le pubblicazioni non ufficiali non includerò link, ma è tutta roba che si può trovare molto facilmente in rete con delle semplici ricerche! Buona caccia!

THE VINTAGE COLLECTION 1978: ALKMAAR, LONDON & BRIGHTON (non ufficiale)
The Vintage Collection è un doppio album che contiene diverse buone registrazioni dei primi anni della band, due con Solley e una con Lord. Alkmaar è registrato in terra olandese in giugno, e vede immediatamente la band costruire un ponte con il passato di David grazie ad una Lady Luck funky con una bella jam centrale. Come On ci porta subito nella nuova dimensione coverdeliana prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City che si caratterizza per un uso delle tastiere diverso rispetto a quello che sentiremo con l’arrivo di Lord. Steal Away è uno dei momenti chiave dei primi anni, uno stomp esaltante che non può non mettere di buon umore, mentre Mistreated è già un tour-de-force per Coverdale e Marsden. Su Belgian Tom’s Hat Trick la band ha la possibilità di svisare con i suoi strumenti, mentre  Lady Double Dealer viene eseguita con delle interessanti armonie di chitarra sull’assolo. London contiene invece sei pezzi registrati al Paris Theatre della capitale inglese una ventina una ventina di giorni dopo e la band è già più rodata e sicura di sé. Come On è ora il pezzo di apertura, e in generale il gruppo suona più compatto e coeso. Se queste due registrazioni ci servono a farci capire come suonassero gli Whitesnake con Solley, è la terza quella che vale veramente la pena ascoltare: tratta da una delle prime date del tour di Trouble ci offre un Jon Lord che fa davvero la differenza in termini di presenza sonora, anche in un mix che penalizza in parte il suo hammond. Il momento chiave del concerto è rappresentato dalla fase che comincia con l’assolo di Jon, assolo che sfocia in una drammatica intro, tutta da ascoltare, per Take Me With You. E il brano di apertura di Trouble viene qui proposto in una versione a dir poco epocale, con evidenti influenze zeppeliniane nella jam centrale (non me ne voglia Coverdale, ma ci sono anche echi di Immigrant Song). Degne di nota anche la cover di Rock Me Baby (“You rock me woman ‘till the juice runs down my leg”) e la tirata conclusione all’insegna del medley Breakdown/Whitesnake, che ci fanno capire come il Serpente Bianco del periodo avesse già tutte le carte in regole per affermarsi come grande live band!

READING 1979
Uscita ufficiale inclusa nel boxset Box ‘O’ Snakes, e derivata da una registrazione radiofonica del noto festival inglese. Siamo nel tour di Lovehunter, è arrivato Ian Paice, e si sente. Oh, se si sente! Il concerto non è purtroppo integrale, ma non importa: i sette brani qui presenti sono davvero esaltanti, con il batterista a dettare i tempi in maniera devastante a partire da Walking In The Shadow Of The Blues e per finire con la tellurica Breakdown/Whitesnake. In mezzo, tante grandi cose come  un’intensissima Ain’t No Love In The Heart Of The City, una Steal Away che con Paice è diventata esaltante più che mai e delle grandi versioni di Mistreated (con Soldier Of Fortune), Belgian Tom’s Hat Trick, e Lovehunter. Live imprescindibile!

DEFINITIVE NAGOYA 1980 (non ufficiale)
Buona registrazione soundboard completa di uno degli ultimi concerti a supporto di Lovehunter, questo bootleg cattura davvero la band in un momento di grande forma. Degna di nota la presenza di You ‘n’ Me, uno dei tipici brani su cui il gruppo sapeva essere davvero trascinante. In questi primi anni, Ain’t No Love In The Heart Of The City ha un’intensità unica, che non avrà più dopo l’addio di Marsden. Mistreated ha già l’arrangiamento definitivo, con le nuovi parti di piano e chitarra che fanno di questa versione un capolavoro. Steal Away è, purtroppo, già uscita dal set, e non si capisce perché, ma ci consoliamo con una grande Might Just Take Your Life, con una Lie Down davvero esaltante e con un medley di riff purpleiani nell’assolo di Lord. Chiudono, per l’ultima volta, Rock Me BabyBreakdown/Whitesnake, che saranno mandate in pensione dopo questo tour. Nagoya 1980 è davvero uno dei migliori live non ufficiali della band, ed è assolutamente consigliato a chi voglia ascoltare gli Whitesnake al top della forma!

DEFINITIVE LIVE… IN THE HEART OF THE CITY (1980) (non ufficiale)
Un paio di mesi dopo il tour giapponese, con Ready An’ Willing ormai disponibile, gli Whitesnake sono a Londra a registrare il loro album dal vivo. Questo bootleg contiene una registrazione dal pubblico della seconda delle due date, fornendoci quindi il set completo. E bisogna dire che, pur non avendo ovviamente la pulizia dell’album ufficiale, siamo di fronte ad un altro grande live, che fa aumentare l’amarezza per la decisione di pubblicare una versione ridotta del set. Il concerto è davvero ottimo, forse giusto appena inferiore a quello di Nagoya, con le nuove canzoni a catturare l’attenzione. Per concentrarsi su quello che non c’è sulla versione ufficiale, segnaliamo una Nighthawk (Vampire Blues)  qui rivista per permettere alla band di esprimersi in chiave strumentale, l’assolo di Jon Lord (con un medley di Woman From TokyoLazy, Smoke On The Water Child In Time), la nuova versione di Mistreated e un breve accenno alla sempre grande Belgian Tom’s Hat Trick. Take Me With You è qui lunghissima, con una jam centrale che include anche la presentazione della band. Per chi ama Live… In The Heart Of The City, questa versione estesa non ufficiale è un ottimo compendio che permette di avere una visione più completa di ciò che erano gli Whitesnake di questo tour.

READING 1980
Uscito anche questo ufficialmente in Box ‘O’ Snakes, questo live è, e lo dico senza paura di essere contraddetto, il migliore live ufficiale degli Whitesnake! Certo, non è completo. Certo, è una registrazione radiofonica non curata come un disco dal vivo vero e proprio. Ma non importa! Sette brani e 55 minuti di pura energia elettrica, con la versione più grande di sempre di Mistreated (quantomeno per quanto riguarda gli Whitesnake) e delle terremotanti LoveHunter Fool For Your Loving. Gli Whitesnake nudi e crudi erano davvero una gran cosa, e nulla lo dimostra meglio di questo live!

LIVE IN WASHINGTON 1980 – DVD
Uscita video ufficiale inclusa nel solito Box ‘O’ Snakes, Live In Washington 1980 ci presenta la band nel corso del suo tour americano a supporto dei Jethro Tull. Si tratta, ovviamente, di un set ridotto, ma è comunque una gioia potere vedere la line-up classica in concerto. Si tratta di una buona prova energica con belle versioni degli otto brani eseguiti, tutti provenienti dal repertorio proprio della band, e con gli highlights rappresentati da Come On, Ain’t No Love In The Heart Of The City e Fool For Your Loving. Sul Tubo se ne trova una versione tagliata e con qualità video peggiore; quindi, se vi interessa, cercate di procurarvi la versione ufficiale!

DRAGONSNAKE – TOKYO 25TH JUNE 1981 (non ufficiale)
Per nostra fortuna, gli Whitesnake perdono ancora una volta la battaglia con i professionisti giapponesi del bootleg (Murray racconterà che ad ogni concerto i roadie si dovevano mettere a cercare stanze nascoste in cui avveniva il “misfatto”), anche se questa volta si tratta solo di una registrazione fatta dal pubblico: se sopportate l’incessante battimani nipponico, si tratta comunque di un live eccellente, che mostra come, anche nel tour di Come An’ Get It, la band girasse ancora a pieno regime. Walking In The Shadow Of The Blues è ora la canzone d’apertura, cosa che la rende ancora più esaltante, dopodiché la band resta nel passato recente con delle ottime Sweet Talker e Ready An’ Willing. Con Don’t Break My Heart Again  Till The Day I Die arrivano i primi due pezzi del nuovo album, prima di due ottime versioni di Lovehunter Mistreated (con la solita Soldier Of Fortune). L’assolo di Lord è molto lungo e creativo, con un’improvvisazione su cui entrano anche Murray e Paice: per chi ama i musicisti che inventano sul momento, è sicuramente uno degli highlight dello show! La solita Belgian Tom’s Hat Trick lascia spazio a tutta la band e introduce l’assolo di batteria, prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City sempre coinvolgente. Would I Lie To You è, prevedibilmente, molto trascinante dal vivo, mentre Fool For Your Loving Come On (suonata per l’ultima volta) ci offrono l’ennesima iniezione di energia elettrica. In questo tour debutta un pezzo speciale di ringraziamento al pubblico: nella sua prima versione Thank You Blues è davvero un blues molto tradizionale dove la voce di Coverdale e la chitarra (suppongo di Marsden) si intrecciano in maniera magistrale. Il brano tornerà nei tour successivi, anche se con un arrangiamento differente. Quando parte il piano honky tonky di Wine, Women An’ Song, capiamo subito che ci si divertirà, e tanto: il brano ci precipita in una grande atmosfera festosa, al cui buonumore è impossibile resistere. Coverdale ne approfitta per presentare la band e lasciare a tutti un loro spazio, ed è davvero una maniera magistrale di chiudere alla grande uno show fantastico!

LOADED GUN – LUDWIGSHAFEN 19TH MARCH 1983 (non ufficiale)
I rinati Whitesnake con Powell, Galley e Hodgkinson partono in tour a presentare Saints & Sinners e vengono invitati da un programma televisivo tedesco a fare da headliner ad un festival con band di estrazione differente. La trasmissione viene immediatamente piratata, ed esistono innumerevoli versioni di questo concerto, sia in video (si trova integrale sul Tubo) che in audio. Quando attacca Walking In The Shadow Of The Blues capiamo subito che la musica è, letteralmente parlando, cambiata: la chitarra di Galley è decisamente più dura di quella di Marsden, e Powell trasformerà i pezzi in cavalcate metalliche. La cosa funziona molto bene su alcuni brani (vedi Rough An’ ReadyDon’t Break My Heart Again), meno su altri. Chi però assiste ai concerti della band dal vivo non si preoccupa probabilmente troppo della cosa, vista la salutare dose di energia e il livello di professionalità musicale. Lovehunter, oltre al solito assolo di Moody, include anche uno spazio personale per Hodgkinson, che esce per un attimo dall’oscurità per ritagliarsi il suo momento di gloria. Sia chiaro, Colin suona alla grande, ma sembra comunque un corpo estraneo in una band in cui Neil Murray offriva decisamente di più in termini di presenza e partecipazione. Crying In The Rain prende il posto di Mistreated, con Galley alle prese con un lungo assolo nervoso; non manca, comunque, il solito accenno a Soldier Of Fortune nel finale, sempre uno dei momenti più emotivamente coinvolgenti dello show. L’assolo di Lord ora include parti dal suo album solista Before I Forget, Powell ha il suo momento sotto i riflettori con l’assolo basato sulla 1812 Overture di Čajkovskij, prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City che ha ormai perso il fascino dei vecchi tempi e una Fool For Your Loving che, riascoltata da casa, suona troppo veloce e confusa. Thank You Blues ha ora una nuova veste più corale e melodica, con il testo che viene cambiato da “I wanna thank you…” in “We wanna thank you…”, ed è oggettivamente coinvolgente, mentre Wine, Women An’ Song è sempre divertente e trascinante, ma ora più diretta e meno avventurosa. Gli Whitesnake del 1983 hanno scelto la strada della potenza e del tiro, sacrificando praticamente del tutto quelle jam e quei momenti più imprevedibili che erano comunque una parte di ogni loro concerto: i tempi sono davvero cambiati!

WHITESNAKE COMMANDOS: DONINGTON 1983
Il Serpente Bianco ha il suo grande momento di gloria europeo con la partecipazione da headliner al Monsters Of Rock del 1983, cui si presenta in forma smagliante. Il concerto viene ripreso e pubblicato su videocassetta, seppur con qualche taglio (in particolare sull’assolo di Lord). Rispetto a Ludwigshafen viene eseguita per la prima volta Guilty Of Love, pubblicata in quei giorni come singolo, e viene rispolverata ufficialmente per l’ultima volta MistreatedPer il resto non ci sono grandi variazioni di nota: gli Whitesnake sono ormai ciò che i britannici chiamano powerhouse, una macchina da concerti fatta di energia e potenza. Certo, qualche crepa c’è (Hodgkinson e Moody ormai con un piede fuori), il feeling dei tempi vecchi è andato, ma il Serpente sta mutando pelle, e il passato è sempre più alle spalle.

LIVE IN GLASGOW 1984
Incluso nella Ultimate Special Edition di Slide It In, ci presenta uno dei migliori show del tour del disco: Galley è ancora abile e arruolato, Lord non ha ancora lasciato e il suo hammond caldo e pesante è ancora una componente fondamentale del sound della band. Lo show è altamente adrenalitico ed energico, con Murray a riportare un basso convinto e Sykes che è di fatto la nuova star della band. A John vengono affidati anche assoli, come quello di Crying In The Rain che nel tour precedente erano stati di competenza di un Galley che ora viene ridotto ad un ruolo più di secondo piano. Il nuovo arrivato se la cava bene in alcuni casi (vedi appunto Crying In The Rain o Slide It In), mentre in altri (Guilty Of LoveFool For Your Loving) i suoi assoli sono solo orride cascate di note veloci. Ciò nonostante, il risultato complessivo è positivo, e il concerto è davvero trascinante ed esaltante ,con brani come Love Ain’t No Stranger o la conclusiva Don’t Break My Heart Again proposti in chiave potentissima. Il caldissimo pubblico scozzese approva chiaramente! La scaletta è fortemente incentrata sul nuovo album, da cui vengono estratti cinque brani (oltre a quelli già citati ci sono, infatti, Slow An’ Easy e l’opener Gambler): David dimostra chiaramente di puntare sul nuovo corso. L’assolo di Lord è di una bellezza struggente: Jon sa già che la sua avventura con la band sta per terminare, e ci tiene, evidentemente, a lasciare alla grande. Proprio il suo hammond è ciò che mantiene ancora un legame con il sound classico della band, ma è un legame che sta per rescindersi. Di conseguenza, noi ci fermiamo qui: la mutazione si completerà a breve e, nel giro di tre anni, Coverdale potrà coronare il suo sogno di successo planetario.
Ma gli Whitesnake che noi amiamo veramente non esistono più.

VIRGIN STEELE – 35 anni di romanticismo barbarico!

Virgin Steele logo

David De Feis e Edward Pursino
David DeFeis e Edward Pursino
Fra la seconda metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la scena musicale dei sobborghi di New York si fa viva della presenza di nuove band hard rock ed heavy metal nate, in buona parte, fra le comunità dei figli e nipoti di immigrati sud-europei ed ispanici. Nomi come Manowar, Twisted Sister, Riot, Foreigner, i Fandango di Joe Lynn Turner ed altri ancora appartengono, chi più chi meno, a questa categoria. E vi appartengono sicuramente anche quei Virgin Steele creati nel 1981 dal chitarrista di origine francese Jack Starr, e poi guidati per tutta la carriera dal carismatico e spiritato cantante e tastierista David DeFeis (dalle radici italiane e francesi), una band capace di contribuire a scrivere il manuale dell’heavy metal epico e di quello sinfonico, per alcuni dei picchi più alti raggiunti dal genere

Starr, O'Reilly, DeFeis, Ayvazian
Starr, O’Reilly, DeFeis, Ayvazian
La formazione originale dei Virgin Steele, oltre che da Starr (chitarra) e DeFeis (voce e tastiere) è composta dal batterista Joey Ayvazian e dal bassista Joe O’Reilly. Come molte band americane dell’epoca, il quartetto cattura dapprima l’attenzione del solito Mike Varney, che pubblica la loro Children Of The Storm sulla raccolta U.S. Metal Volume II. La spettacolare qualità del brano dimostra già come i Virgin Steele siano pronti al debutto discografico.

VIRGIN STEELE (1982)
Virgin Steele IL’album di esordio esce autoprodotto nel 1982, per essere poi distribuito in Europa l’anno dopo da Music For Nations. Il disco è un valido lavoro di metallo urbano americano, molto vicino ai primi Riot e con influenze che vanno dai Led Zeppelin ai Grand Funk passando per i Judas Priest. Starr, con il suo spettacolare chitarrismo torrido e viscerale, è ancora il punto focale della band, mentre DeFeis, pur appartenendo già alla categoria delle ugole strepitose in un piccolo corpo, è ancora acerbo vocalmente e tende a strafare sugli acuti. L’album, nonostante un songwriting lontano dall’essere maturo e una produzione scarsa (di fatto è una raccolta di demo), si fa apprezzare per la rozza energia, per gli assoli spettacolari e la carica dei riff: American Girl, la sleazy Living In Sin e la power ballad Still In Love sono sicuramente fra le cose migliori. Oltre alle strumentali Minuet in G Minor e Lothlorien, in cui DeFeis inizia a mettere in campo le sue intenzioni sinfoniche e pianistiche, due pezzi in particolare cominciano però a mostrarci i Virgin Steele più epici e sontuosi: si tratta del brano autointitolato e, soprattutto, della già citata Children Of The Storm. Quest’ultima è una spettacolare cavalcata metallica venata di toni sinfonici, ed è il primo vero grande classico della band.
Fra le bonus track della ristampa in CD si segnala poi in particolare la progressiva The Lesson, in cui David si ritaglia uno spazio importante alle tastiere.
Virgin Steele è sicuramente uno di quei vinili che hanno lasciato il segno fra gli appassionati di culto della primordiale scena U.S. Metal (fra gli altri, Queensrÿche e Metallica, fra i primi fan del quartetto), ma, nonostante le rimostranze dei duri e puri che preferiscono questa prima, più chitarristica, incarnazione della band, il meglio dovrà sicuramente ancora venire.


GUARDIANS OF THE FLAME (1983)
Guardians of the FlameIl secondo album rappresenta una chiara evoluzione rispetto al debutto, in una direzione più vicina al power metal americano. L’opener Don’t Say Goodbye (Tonight) è un nuovo classico, una cavalcata di heavy metal melodico a stelle e strisce che si stampa subito in testa. Brani come la cupa Burn The Sun, la priestiana Life Of Crime e la veloce Metal City ci mostrano il lato più tagliente e duro della band, ma appare subito evidente una dicotomia fra pezzi come questi, che portano la firma del solo Starr, e quelli che invece che vedono DeFeis impegnato come autore o co-autore, canzoni che invece hanno un taglio più epico o melodico. Oltre al pezzo d’apertura nominato in precedenza, spiccano fra questi la titletrack (dal ritornello magniloquente) e, soprattutto, la possente The Redeemer, brano massiccio e sontuoso che ci riporta in maniera indubbia ai Rainbow del periodo Dio, rivisitati in chiave metallica e sferragliante. Indubbiamente il punto più alto dell’album, e uno dei più alti della carriera della band. Il disco (che si conclude con la bella ballata pianistica A Cry In The Night) viene, dopo pochi mesi, seguito da un EP (Wait For The Night) scritto quasi interamente da Starr, che rappresenterà il canto del cigno dei Virgin Steele originali. Starr vuole infatti insistere su un sound puramente metallico e chitarristico, mentre DeFeis cerca un evoluzione verso uno stile più complesso ed elegante e non tollera più le scelte compositive di quello che, fino a quel momento, era stato il leader del gruppo. La separazione è inevitabile, e O’Reilly e Ayvazian scelgono di abbandonare il fondatore della band per mettersi dalla parte del’ambizioso cantante dagli occhi spiritati. Per alcuni fan della prima ora, e per gli oltranzisti del metallo più puro, la separazione da Starr rappresenta la fine dei Virgin Steele, per tutti gli altri è il momento in cui il gruppo inizierà il percorso verso le sue vette più alte. Indubitabile, comunque la si pensi, che Guardians Of The Flame sia un gran bel disco.


NOBLE SAVAGE (1985)
NOBLE SavageNon senza qualche problema giudiziario relativo a una querelle sull’uso del nome con Starr, i Virgin Steele riescono a ripartire nel 1985. Alla chitarra c’è ora Edward Pursino, musicista delizioso dotato di uno stile più elegante e misurato del suo precedessore, ma comunque capace di concepire grandi riff ed assoli, nonché più disposto a mettersi in secondo piano dal punto di vista compositivo. Il devastante pezzo di apertura We Rule The Night è un classicissimo, con un DeFeis davvero magistrale dal punto di vista vocale: David, su questo album, ha ormai il pieno controllo della propria voce, ed è in grado di passare con facilità da ruggiti leoneschi a falsetti angelici (di cui tende ancora ad abusare). L’album svaria fra sontuosi pezzi epici (la title track, Thy Kingdom Come, una The Angel Of Light rubacchiata ad Alice Cooper), rocciosissimi pezzi heavy metal (Fight Tooth Nail, I’m On Fire) e tentativi di arena rock (Rock Me, Don’t Close Your Eyes) e,  pur non invecchiato benissimo, resta comunque un caposaldo assoluto del metal venato di epicità degli anni ’80, ponendo le basi fondamentali per il sound definitivo della band.

Virgin Steele Mk II
Virgin Steele Mk II
AGE OF CONSENT (1988)
VS AoCDopo tour importanti che sono costati alla band decisi investimenti (per pagare alcuni debiti, DeFeis e Pursino suonano e producono in semi-incognito diversi album della cosiddetta scena “metalxplotation”, per conto di band vere o finte quali Exorcist, Piledriver and Original Sin), i Virgin Steele si sentono finalmente pronti a fare il salto definitivo verso una fama maggiore: dedicano così diversi mesi a incidere il successore di Noble Savage, sicuri che la congiuntura sia quella giusta. Le cose, però, vanno nel peggiore dei modi: la casa discografica prima interferisce sulla scelta dei brani, mettendo quelli più commerciali nella facciata A del vinile, poi, per problemi finanziari, assicura solo una distribuzione minima e zero promozione al disco. Per i Virgin Steele sarà una botta considerevole, una crisi che metterà in discussione l’esistenza stessa della band. Per la ristampa di nove anni, dopo DeFeis stravolgerà la scaletta, scegliendo un ordine a lui più gradito e aggiungendo sei brani che scrolleranno dal disco la patina commerciale per enfatizzare la sua anima più epica e romantica. In entrambe le versioni, Age Of Consent resta comunque notevole, ma è sicuramente la riedizione ad essere più efficace e riuscita, ed è a questa che ci riferiremo. The Burning Of Rome è semplicemete uno dei brani più grandi della storia dell’heavy metal, una bordata epica incentrata su quello che diventerà uno dei temi più cari all’estetica romantica del cantante: Amore e Morte. Lion In The Winter, Let It Roar, Chains Of Fire e On The Wings Of The Night rafforzano l’anima metallica e sontuosa della band. Fra i brani aggiunti a posteriori spiccano l’intensissima power ballad Perfect Mansions (Mountains Of The Sun), anch’essa incentrata sul tema “amore e morte”, e una splendida rivisitazione di Desert Plains dei Judas Priest. I pezzi più commerciali tendono ad apparire fuori contesto nella versione rivista, ma la viziosa Seventeen e la ballad Tragedy sono sicuramente ottime composizioni nel loro genere.


LIFE AMONG THE RUINS (1993)
LATRCi vogliono ben cinque anni ai Virgin Steele per riprendersi dal disastro di Age Of Consent: nel frattempo DeFeis ha avuto modo di completare i propri studi classici, mentre dobbiamo prendere nota di un cambio al basso, con O’Reilly (che già non aveva suonato sul disco precedente, “coperto” da DeFeis e Pursino) rimpiazzato prima Teddy Cook e poi da Rob De Martino, entrambi più bravi del membro fondatore. Mentre la stragrande maggioranza dei fan si aspetta che il quartetto torni a sviluppare quei temi epici per cui si era conquistato il ruolo di adorata cult band, riallacciandosi allo stile di canzoni come The Burning Of Rome e Noble Savage, i Virgin Steele decidono di scontentare tutti e uscire con un album di puro hard rock di stampo blues, influenzato da Whitesnake, Aerosmith e compagnia. Una scelta doppiamente suicida, se pensiamo che, nel frattempo, è esploso il ciclone grunge, e questo genere non può più avere alcuna speranza di successo commerciale. La cosa veramente clamorosa, in tutto questo, è che il disco è assolutamente notevole: David è credibilissimo nel ruolo, affrontato con personalità e una voce stellare, di alter ego di Coverdale e Tyler, mentre il suo songwriting riesce ora ad affrontare questo tipo di brani senza risultare stereotipato; al tempo stesso Pursino ci regala delle gemme di assoli e riff massicci e pieni di groove, con la band che suona compatta e grintosa. Pezzi trascinanti e sensuali come Sex Religion Machine e I Dress In Black (Woman With No Shadow), assieme a ballad come Never Believed In Goodbye o Wildfire Woman contribuiscono alla riuscita di un album che, fosse uscito pochi anni prima, avrebbe conquistato (con un minimo di promozione adeguata) le classifiche di mezzo mondo. Chiaramente, però, Life Among The Ruins è anche un album che non può essere apprezzato dai fan dell’epic metal duro e puro, che non si dovranno comunque preoccupare: DeFeis sta già preparando la sua opera più ambiziosa, e c’è solo da aspettare.

Con De Martino
Con De Martino
THE MARRIAGE OF HEAVEN AND HELL PART I & II (1994-1995)
themarriage1Quando parte il riff sferragliante di I Will Come For You, seguito dalla voce calda e leonesca di DeFeis, tutti i dubbi sono immediatamente spazzati via: i Virgin Steele sono tornati a fare quello che ci si aspetta da loro. Uscita in due parti, The Marriage Of Heaven And Hell, è la vera e propria magnum opus della band, una sinfonia romantica in cui class ed epic metal si fondono all’insegna di un sound sontuoso, arioso, grintoso e magniloquente, figlio diretto dei brani più apprezzati della band. L’approccio sinfonico è dato dal ritornare di temi musicali, da improvvise aperture inattese e dalla visione d’insieme di un concept mitologico apparentemente vago (la storia proibita di due amanti che si reincarnano attraverso i secoli, perseguitati dalla furia delle divinità), che definisce però appieno l’essenza romantica dei Virgin Steele. Tutto funziona alla perfezione: la chitarra di Pursino è una gioia per le orecchie, David ruggisce e ammalia con la sua voce multiforme e la produzione rende finalmente giustizia al suono della band. Nel mezzo delle registrazioni della seconda parte del concept, i Virgin Steele riescono persino ad assorbire il colpo del cambio di batterista, con il membro fondatore Joey Ayvazian che viene rimpiazzato dal più metallico Frank Gilchriest. È davvero difficile trovare dei brani che si staglino rispetto al resto di un doppio album fantastico, ma il duo composto dalla complessa Prometheus The Fallen One (che deve qualcosa ad Achilles’ Last Stand dei Led Zeppelin) e dalla drammatica Emalaith (ancora una volta incentrata su Amore e Morte) riesce ad essere persino superiore al resto.


INVICTUS (1998)
invictusNonostante due ore e mezza di musica (e più, se pensiamo che The Burning Of Rome viene ora considerata il preludio dell’opera) DeFeis ritiene che la storia di Endyamon ed Emalaith non possa ancora ritenersi conclusa: ecco che quindi arrivare, con Invictus, il terzo capitolo della saga del Matrimonio di Paradiso e Inferno. Nei cinque anni dal ritorno della band, all’epoca di Life Among The Ruins, molte cose sono cambiate: mentre negli USA continua a farsi sentire l’impatto della scena grunge, in Europa è in corso una vera e propria rinascita dell’heavy metal classico nelle sue forme più maestose ed epiche, sostenuto da tutta una generazione di giovani appassionati. I Virgin Steele, che con il concept sono riusciti a costruirsi una nuova credibilità, sono pronti a conquistare un posto d’onore fra i ragazzini che impazziscono per Manowar e Blind Guardian, puntando al massimo sulla metallizzazione ed esasperazione dell’epicità del proprio stile: la band inietta nel proprio sound forti dosi dei suddetti Manowar (esperimento già tentato con successo nel secondo Marriage, con una Symphony Of Steele che richiamava Wheels Of Fire) e di power metal europeo. Persino lo stile vocale del cantante si avvicina parecchio a quello del suo connazionale Eric Adams, mentre Gilchriest ricorre ad un utilizzo massiccio della doppia cassa e la produzione si fa più distorta e violenta. Quello che si guadagna in compattezza e aggressività viene però perso in termini di ariosità e ricchezza del sound: Invictus sarà un disco che dividerà i fan, con molti dei vecchi delusi da un lavoro troppo monolitico, adorato però da molti defender oltranzisti e dalla nuova generazione di appassionati. Per DeFeis, comunque, la scommessa è sicuramente vinta, dato che Invictus è l’album più venduto della storia dei Virgin Steele. Musicalmente, l’album contiene molti momenti validi, seppure a volte soffocati all’interno di soluzioni e scelte forzate. Se la title track, di per sé esaltante, avrebbe sicuramente beneficiato di un cantato meno stressato, pezzi come Sword Of The Gods e Defiance (con il preludio Vow Of Honour) hanno sicuramente più di un perché. A mettere d’accordo tutti ci pensa, senza ombra di dubbio, l’epica conclusiva della lunga Veni, Vidi, Vici, brano capolavoro di devastante teatralità metallica che rappresenta il perfetto suggello del concept. Quello che è sicuro è che si può pensare quello che si vuole di Invictus, ma resta un fatto: con questo l’album sarà l’ultima volta che i Virgin Steele suoneranno come una band.

Gilchriest, De Feis, Pursino
Gilchriest, DeFeis, Pursino
HOUSE OF ATREUS ACT I & II (1999-2000)
AtreusCompletamente assorbito dal fuoco sacro della composizione, DeFeis si lancia immediatamente nella sua fatica successiva, un adattamento musicale dell’Orestea di Eschilo. L’obiettivo è di arrivare ad una rappresentazione teatrale (cosa che avverrà in Germania), ma anche di realizzare l’opera metal definitiva. Per avere il totale controllo artistico, per non essere vincolato dai limiti temporali degli studi di registrazione e forse anche per limitare i costi, il compositore decide di registrare tutto in casa propria. La scelta è abbastanza sciagurata: Gilchriest viene costretto a incidere le parti di batteria su un kit elettronico di bassa qualità, per un discutibile risultato sintetico; anche i riff di chitarrra di Pursino suonano ora digitali e freddi; mentre il bassista non c’è proprio, dato che De Martino se ne è andato, lasciando un vuoto che Edward e le tastiere non riescono a coprire. DeFeis ormai non ha più freni: se mai ci fosse ancora alcuna dubbio, qui si capisce che i Virgin Steele intesi come band non esistono più. Il processo compositivo è quasi completamente tastieristico, mentre chitarra ritmica e batteria sono ora per lo più un tappeto privo di groove che si limita ad accompagnare i brani, piuttosto che farne parte integrante. House Of Atreus esce in due parti (su tre CD) fra 1999 e 2000, per oltre due ore quaranta minuti di durata (e anche di più se aggiungiamo l’EP di intermezzo Magick Fire Music) infarcite di passaggi strumentali pianistici e parti semi-recitate. Un disastro senza capo nè coda? Tutt’altro: se si è disposti a passare sopra ai problemi di una produzione che stanca in fretta e se si ha la forza e la voglia di dedicarsi all’ascolto certamente non facile di un’opera che non si può non definire prolissa, The House Of Atreus si rivela un lavoro di una bellezza quasi disarmante. Quel respiro ampio  che mancava in Invictus torna a farla da padrone, le melodie hanno spesso dell’incredibile, DeFeis fa letteralmente ciò che vuole con la voce (interpretando alla perfezione sia i personaggi maschili che quelli femminili), Pursino regala altre delizie solistiche. Alla fine è difficile non restare folgorati dalla magia di pezzi come le dure Kingdom Of The FearlessWings Of Vengeance e Resurrection Day, o le sontuose Gate Of Kings (peraltro più bella nella versione acustica dell’EP), Moira e Child Of Desolation. Una nota particolare: quando emergono prepotemente alcuni temi musicali del concept precedente, viene svelata la sorpresa lasciata in serbo da DeFeis: la sua Orestea si inserisce nell’ambito della saga del Matrimonio, con Elettra a rappresentare una delle tante reincarnazioni di Emalaith… una scelta che, come immaginabile, dividerà le opinioni di chi parlerà di riciclaggio di idee (accuse rafforzate dalla riproposizione di brani incisi con Piledriver ed Exorcist, riadattati al concept) e di chi apprezzerà la bravura nel riproporre a sorpresa temi cari. House Of Atreus resta sicuramente un’opera controversa: a giudizio di chi scrive, bisogna davvero trovare la voglia di ascoltarla… ma, quando la si trova, si viene certamente ripagati!

HYMNS TO VICTORY/THE BOOK OF BURNING (2002)
VictoryburningIl prossimo passo nella carriera dei Virgin Steele non è un album di inediti, ma una doppia raccolta che esplora tutta la carriera della band in occasione del ventennale dal debutto. Hymns To Victory contiene soprattutto brani del periodo Pursino, con un’ottima scelta che include molti dei classici più famosi. Alcuni dei brani sono remixati o presentano nuove parti, ma non sempre il risultato è riuscito, come evidenziato dall’orribile doppia cassa sintetica in Crown Of Glory (Unscarred). Ci sono un paio di inediti, come l’acustica Mists Of Avalon e una Saturday Night che, col suo stile alla Kiss, stona completamente rispetto a tutto il resto (pur essendo, di per sè, un brano più che valido). Decisamente più interessante l’altra raccolta, incentrata su nuove versioni di brani dell’epoca Starr: all’epoca dell’uscita di The Book Of Burning DeFeis non era ancora riuscito a negoziare la ristampa dei primi due album (ci riuscirà poco dopo), e quindi questa era la prima occasione per ascoltare su CD grandi classici come Children Of The Storm, Don’t Say Goodbye (Tonight), The Redeemer, Guardians Of The Flame e A Cry In The Night (rifatta in una meravigliosa versione acustica). I rifacimenti sono rivisti alla luce delle più recenti scelte stilistiche (cosa che tende a togliere dinamismo ai brani) ma godono anche di un’interpretazione vocale ai massimi livelli di maturità ed espressività. Ci sono anche pezzi nuovi, scarti elaborati, e persino due nuovi brani a firma DeFeis / Starr, scritti nel 1997 in un tentativo di riavvicinamento fra i due (ma comunque suonati da Pursino come tutti gli altri di questa raccolta): spiccherebbe Hellfire Woman se non fosse per la solita, discutibile, batteria. Infine, una nota sulla formazione: da qualche anno si è unito alla band il giovane polistrumentista Joshua Block, generalmente impiegato dal vivo come bassista e in qualche sciagurato tour come secondo chitarrista, lasciando il ruolo scoperto; non ci è dato sapere, però, quanto effettivamente venga utilizzato in studio.

Pursino, Gilchriest, De Feis, Block
Pursino, Gilchriest, DeFeis, Block
VISIONS OF HEAVEN (2006)
VisionsDeFeis è sempre senza freni, ma ora comincia ad essere a corto anche di ispirazione. Quando esce Vision Of Heaven cadono in maniera decisa molte delle certezze che ancora circondavano i Virgin Steele. L’album, composto da undici lunghi(ssimi) brani finisce per risultare in fretta non solo difficile, ma semplicemente noioso. Buona parte dei brani si può riassumere come un tappeto ritmico di chitarra e doppia cassa su cui DeFeis canta e suona le tastiere, accompagnato da assoli suoi e di Pursino. Alcune melodie forti riescono a farsi valere, ma l’approccio sinfonico è molto più didascalico che in passato. Quando poi si riciclano del passato (vedi la strofa di Black Light On Black, identica a quella di Kingdom Of The Fearless) non c’è neanche più la giustificazione del concept unico a reggere. Se infine aggiungiamo che anche la voce comincia a mostrare segni di cedimento, con gli acuti in falsetto che iniziano ad apparire deboli e strozzati, ecco che il senso di tristezza comincia a prevalere. Non è tutto da buttare, sia chiaro: ci sono idee melodiche davvero meritevoli (un brano come God Above God riesce comunque ad avere del meraviglioso), e il compositore cerca di fare sì che il suo disco abbia un’identità propria nella discografia della band… ma, alla fine, prevale solo la noia. A complicarsi ulteriormente la vita, De Feis decide di mandare alla stampa un CD promozionale con un orribile mix provvisorio, cosa che contribuirà ad aumentare ulteriormente la quantità di stroncature: quando si dice “avere bisogno di un manager e un produttore che ti tengano a bada…”

THE BLACK LIGHT BACCANALIA (2010)
bacchanaliaIl nuovo disco è un altro lavoro prolisso e senza freni. I testi, continuano il discorso già intrapreso in Visions Of Heaven: un misto di mitologia e filosofia gnostica, ma sempre con un sano spirito heavy metal… e sono sicuramente la cosa migliore dell’album. Musicalmente siamo di fronte ad un disco decisamente più dinamico rispetto al precedente, e l’ascolto ne guadagna decisamente. In compenso crolla ulteriormente la performance vocale: DeFeis è sempre meraviglioso quando vuole e canta in maniera rilassata, ma i suoi acuti sono ormai spesso deboli ed irritanti; il cantante tende pure ad abusarne, esasperando anche quegli urletti e piccoli “ruggiti” che sono da tempo parte del suo stile, e che ora suonano più stucchevoli che mai. Il vecchio leone comincia ormai a suonare come uno stanco gattino lagnoso; una tendenza, questa, che si porterà anche dal vivo, dove distruggerà molti vecchi classici con dei falsetti davvero fastidiosi. E pensare che i concerti dei Virgin Steele erano sempre una grande esperienza! Difficile dire se siamo di fronte ad un passo avanti rispetto a Vision Of Heaven, ma resta la sensazione che con una batteria vera, uno studio di registrazione, e un produttore serio che tagli tutto ciò che è di troppo e dica a David come NON cantare, The Black Light Baccanalia avrebbe potuto essere un bel disco. Invece abbiamo una serie di brani dal gran potenziale – come la titletrack, By The Hammer Of Zeus (And The Wrecking Ball Of Thor) e la melodica Eternal Regret – espresso, però, in maniera maldestra e noiosa.

NOCTURNES OF HELLFIRE & DAMNATION (2015)
NocturnesPer il nuovo disco, DeFeis decide di non volere più far finta di avere bisogno di un batterista, e dice al povero Frank Gilchriest che userà una drum machine. Frank,  che già nell’ultimo periodo era molto sottoutilizzato (David trova più redditizio fare concerti acustici, durante i quali può massacrare i classici miagolando accompagnato da piano e chitarra), dice grazie e a non rivederci. Il nuovo album è fondamentalmente un riassunto degli ultimi anni della band: per qualche motivo, forse perché Pursino sembra piu coinvolto che in passato, il disco risulta piuttosto digeribile, nonostante un DeFeis spesso davvero irritante nel cantato. Restano però anche tutti i difetti dell’ultimo periodo, prolissità e produzione in primis. La bluesy Demolition Queen, quasi un ritorno a Life Among The Ruins, è una delle cose migliori del disco, così come l’opener Lucifer’s Hammer. Discutibili, invece, i due ripescaggi degli Exorcist, perché senza lo spirito becero e cazzone con cui i brani erano stati incise originariamenti diventano terribilmente noiosi. Siamo alla fine per ora, ma non dobbiamo preoccuparci: DeFeis ha già detto di avere altri tre album pronti. Qualcuno gli dica qualcosa!


APPENDICE: EXORCIST
NIGHTMARE THEATER (1986)

ExorcistCome spiegato precedentemente, problemi finanziari costrinsero negli anni ’80 DeFeis e Pursino ad accettare lavori in semi-incognito, per riuscire a pagare i debiti dei Virgin Steele. Il fenomeno della metalxplotation fu quello che vide la pubblicazione di album registrati a budget zero da band spesso fittizie per sfruttare le mode del momento. Gli Exorcist erano stati assemblati come band thrash metal, con DeFeis e Pursino a scrivere tutto il materiale e David stesso alla produzione. Al momento di andare in studio, però, la band si sfaldò, e i due furono costretti a registrare, in soli tre giorni, l’intero album con il batterista Mark Edwards. Il disco è un lavoro decisamente figo di validissimo thrash orrorifico, anche inquadrabile come proto-black metal: DeFeis canta come un incrocio fra Chronos e Lemmy e si cimenta in testi becerissimi di stampo satanista, mentre il chitarrista tira fuori riff serratissimi e assoli sporchissimi, con risultati magistrali. Pezzi come Black Mass, Possessed, Queen Of The Dead e Lucifer’s Lament sono dei classici minori del genere. Alcuni brani di questo album sono poi finiti, in forma più o meno riadattata, su diversi album della band madre, ma, in verità, l’esperimento è riuscito solo su The House Of Atreus. Nel complesso, un disco decisamente valido e speciale, anche se distante da quello che ci si aspetta da DeFeis e Pursino!


SAXON + Mikkey Dee and Phil Campbell (MOTÖRHEAD)

Klippan (Svezia) – Ljungbyhed Raceway – 24 settembre 2016

Phil Campbell
Phil Campbell

Doveva essere la sera della celebrazione, e sicuramente lo è stata, ma è innegabile che, per molti fan, sia rimasto anche un retrogusto da occasione sprecata. Il problema innegabile è stato inserire quello che doveva essere un evento (Mikkey Dee e Phil Campbell che tornano a suonare assieme pezzi dei Motörhead) non in un concerto vero e proprio, ma come elemento aggiuntivo per riempire i ritagli di tempo nel contesto avulso di una serie di gare automobilistiche, per una competizione chiamata Lemmy 500. I Saxon iniziano a suonare alle 20, e sono i soliti Saxon: una macchina da Heavy Metal, capace di impressionare sia con i brani recenti (l’opener Battering Ram, Sacrifice, I’ve Got to Rock (To Stay Alive)) che con alcuni dei loro classici più grandi (Motorcycle Man, 747 (Strangers In The Night) e 20,000 ft fra le altre). Ancora una volta, Biff si dimostra disponibilissimo a stravolgere la scaletta in base alle richieste dei fan, ed ecco The Eagle Has Landed inserita nonostante la paura di sforare oltre il tempo assegnato. E proprio il tempo assegnato si rivela essere il vero problema della serata: alla fine la band avrà a disposizione solo un’ora, e quando Denim and Leather e Princess Of The Night chiudono il set ci si accorge che mancano all’appello troppi classici, da una Crusader ad una Wheels Of Steel passando per una Strong Arm Of The Law. Viene da consolarsi con “adesso tocca all’omaggio ai Motörhead”, ma nulla da fare: ci tocca aspettare 90 minuti, perché ci sono delle altre gare da svolgere. Noi che attendiamo la band non possiamo fare altro che “goderci” il discreto freddo di una notte svedese di inizio autunno. A completare la beffa, ci dobbiamo anche sorbire la premiazione dei vincitori e, nella prima fila, essere innaffiati dal loro ***** di champagne.

L'assalto frontale dei Saxon
L’assalto frontale dei Saxon

Sono circa le 22:45 quando, finalmente, inizia l’atteso evento: con Mikkey (che già aveva partecipato alla premiazione) e Phil salgono sul palco Biff, Doug Scarrat e Nibbs Carter, e sui colpi di batteria di Born To Raise Hell si scatena il delirio. Ovviamente manca Lemmy, ma siamo qui per goderci le cover e, fortunatamente, non sale il magone. Biff se la cava perfettamente alla voce, mentre Carter è un signor bassista ma non ha la presenza sonora per rendere giustizia ai pezzi dei Motörhead: ce ne accorgiamo perfettamente quando parte, moscia e quasi irriconoscibile, l’introduzione di Ace Of Spades. Ace Of Spades? Già, ed ecco che qui cominciamo a preoccuparci: se questa è la seconda canzone di un evento in cui si dovevano suonare i “greatest hits” dei Motörhead, capiamo che siamo già alla fine della serata. C’è tempo giusto per una versione accorciata di Overkill, con solo un “reprise” della parte finale e senza neanche l’apocalisse sonora del basso sovraccarico: non è la stessa cosa. È tempo dei saluti, e quello che doveva essere un evento si è risolto in una mini comparsata da pochi minuti. Phil Campbell, maglietta di Lemmy addosso, lascia il palco per ultimo, commosso ed emozionato: se Mikkey adesso ha un nuovo lavoro, come batterista degli Scorpions, il futuro del vecchio “Wizzö” è ancora incerto: chissà che non ci stia pensando, a riproporre questo tributo in maniera più adeguata.

L'ora dei saluti
L’ora dei saluti

BLACK STAR RIDERS – The Killer Instinct (2015)

BlackstarridersthekillerinstinctScott Gorham è stato una sorta di capitano in seconda dei Thin Lizzy. E’ pure un uomo serio, rispettoso al punto di non usarne il nome. Umanamente, non possiamo volergli male, ma nemmeno perdonargli il fatto che i suoi Black Star Riders abbiano già pubblicato due fiaschi su due. Tutti i particolari del Lizzy-sound sono lì, lucidati ed esposti in una camera stagna dalle pareti trasparenti. Come dire che c’è la vena del cantastorie à la Bob Seger, l’epica protometal, l’influenza folk, quella southern (quelle soul e funk, complice la voce di Warwick e una ritmica troppo quadrata, mancano del tutto), ma ci sono perché ci devono essere, senza che l’amalgama vada oltre una ripetizione meccanica dell’immagine mentale cristallizzata nelle menti dei rocker di tutto il mondo. Nemmeno paragonati alla media delle uscite in giro i Black Star Riders riescono a rimediare una bella figura, perché sembrano una band tedesca buona per un palco secondario del Wacken. Phil Lynott è morto e i Thin Lizzy con lui. Un’action figure, perché questo sono i Black Star Riders, non potrà mai essere all’altezza. Complimenti.

MASTODON@Fabrique, Milano, 10/12/2014

mastodon

Il Fabrique è un nuovo locale di Milano destinato ad accogliere eventi musicali e mondani di vario tipo. Ricavato da un ex impianto tessile, vanta un’acustica niente male e sconta la presenza di un paio di colonne portanti che, certamente, non aiutano la visuale. Sia come sia, è proprio il Fabrique ad ospitare la calata milanese dei Mastodon, accompagnati da Krokodil e Big Business. Sono proprio i Krokodil ad aprire la serata: formati da membri di Sikth e Gallows, i sei inglesi picchiano come disgraziati ripercorrendo un po’ la scia di sottovalutate formazioni hardcore connazionali degli anni ’00 – Earthtone9 (da cui mutuano pure certe aperture melodiche), Raging Speedhorn, Medulla Nocte. Compattissimi e poderosi, sono un gruppo da tenere d’occhio. I Big Business sono invece un duo che fa casino per dieci. Un bassista/cantante e un batterista, un groove inarrestabile e una presa immediata, come se i Melvins venissero centrifugati dai Lightning Bolt. Decisamente da tenere d’occhio! E infine, i Mastodon. Puntuali alle dieci e mezzo, i quattro di Atlanta attaccano subito con Thread Lightly, Once More ‘Round The Sun e Blasteroids: il suono è ottimo, la presenza scenica ruvida e hardcore. Le canzoni infatti si susseguono senza pause nè discorsi, giusto Troy Sanders prova ad interagire un minimo col pubblico. Possiamo notare una cosa: se Sanders, vocalmente, se la cava bene come sempre, Brent e Brann sono davvero migliorati. Finalmente l’alternanza vocale, dal vivo, funziona bene come su disco, e lo testimoniano ottime esecuzioni di brani come Oblivion, Divinations o Black Tongue. Gli estratti dall’ultimo album la fanno da padrone, ma è bello vedere come la scaletta nel suo insieme mostri un suono che si è evoluto rimanendo sempre coerente con sè stesso negli assunti di base. Acclamatissime Megalodon (con relativo pogo spaccaossa all’altezza dell’accelerazione centrale) e, ovviamente, Blood And Thunder col suo riff memorabile. Bello sentire il pubblico intonare “Hey ho, let’s fuckin’ go” durante Aunt Lisa, fantastica Ol’ Nessie con le sue atmosfere fra Neurosis e Lynyrd Skynyrd, e tanto di cappello per una mostruosa, intensissima Bladecatcher. Dopo un’ora e venti il concerto finisce e solo Brann Dailor si intrattiene un attimo a salutare e ringraziare. Un’ultima considerazione: il Fabrique era pieno a metà. Un mese prima i Machine Head hanno fatto appena ottocento spettatori. Gli Epica invece, nello stesso periodo, il tutto esaurito. E da giorni. Il metal che piace in Italia è quello epico/melodico/sinfonico. Tutto il resto si becca le briciole.

TEN – Albion (2014)

TenalbumalbionSono vent’anni che i Ten ci deliziano col loro personale approccio al metal melodico: un incrocio fra gli Iron Maiden e l’Hard Rock anni ottanta (su tutti i Whitesnake di 1987) che ha toccato l’apice nel 1999 con l’album Spellbound. Diciamo subito che dal punto di vista puramente metallaro il nuovo Albion non è e non può essere alla stessa altezza di quello: sono passati quindici anni e la vena melodica di Gary Hughes ha ormai preso il sopravvento sull’irruenza. Il paragone comunque non è fuori luogo se si considera che Albion è forse l’album più pesante dei Ten dai tempi proprio di Spellbound, e se non è proprio Power Metal almeno ci va più vicino di entrambi i lavori precedenti.

L’annuncio dell’inserimento di un terzo chitarrista aveva fatto salire le mie aspettative alle stelle, ma va detto ad onor del vero che la band aveva anche specificato che l’intento era di dare più spessore alla dimensione live. Detto questo gli assoli su Albion sono spesso più ricchi di sfumature che in passato, e quando si lanciano nel virtuosismo (A Smuggler’s Tale, It Ends This Way) non lasciano dubbi sulle loro radici Heavy Metal.

Il brano migliore è senza ombra di dubbio quello che dà il titolo all’album: Albion Born. Una ballata epica sulle origini di Albione (oggi chiamata Inghilterra) che seduce l’ascoltatore con un ritornello cantabile e un ritmo incalzante.

Il brano più debole è Gioco D’Amore, in cui solo il ritornello è cantato in Italiano. Per fortuna aggiungo io perché a parte l’accento agghiacciante di Gary Hughes le parti in Italiano sono quasi prive di significato. Il tentativo comunque non è del tutto da buttare: il contrasto melodico fra le due lingue è ben confezionato, ma il tutto rimanda troppo chiaramente ad altri brani ben più riusciti e troppo famosi per essere ignorati, su tutti un certo duetto di Andrea Bocelli…

In breve Albion è un ottimo album di Metal Melodico che prosegue nella direzione indicata dal precedente Heresy and Creed aggiungendo qualcosa dal punto di vista delle atmosfere epiche e delle chitarre Heavy Metal ma tenendo il piede fermo nella melodia.

IDEOGRAM – Life Mimics Theatre (2014)

Gli Ideogram nascono alla fine del 2012 ad opera di alcuni musicisti del sottobosco metal milanese con l’intento, piuttosto ambizioso, di unire una proposta musicale sperimentale e innovativa ad una forte componente artistica e visuale. Il demo Raise the Curtain e il video di Theatre of the Absurd hanno aperto la strada per il loro primo tour italiano e la firma con l’etichetta Wormhole Death Records. Il risultato di tutto questo lavoro è il loro esordio discografico con l’album Life Mimics Theatre Ideogram. Musicalmente si definiscono avantgarde-metal, ma più realisticamente possiamo dire che il loro è un riuscitissimo mix in cui il black metal alla Cradle of Filth si unisce al gothic di gruppi Moonspell o Nightwish all’elettronica dei Rammstein o dei Death Ss del periodo Panic e, per finire, un pizzico in stile colonna sonora da film horror che puo’ richiamare i Goblin. Tutto questo è giusto per dare delle coordinate di riferimento visto che la proposta dei nostri e’ assolutamente personale. Quello che colpisce è anche l’abililtà strumentale, soprattutto il chitarrista Kabuki è davvero bravo sia in fase di riff che negli assoli. Ogni tanto fanno comparsa alcuni elementi un po’ eccentrici tipo il reggae di In A Cobalt Ocean o la fisarmonica di Rain of Stars o il recitato in italiano dell’outro ma non sono mai fuori luogo e si inseriscono bene nell’economia dei brani. Che dire, davvero un ottimo debutto, il livello compositivo è altissimo, si lascia ascoltare dall’inizio alla fine (ogni canzone ha una sua personalità) ma soprattutto pur mettendo insieme molti stili diversi il tutto suona coerente e rimane assolutamente metal. Gruppo da tenere d’occhio

Un anno di Metal: 1988

Iron Maiden, Seventh Son of a Seventh SonNell’Aprile del 1988  un ragazzino appena quattordicenne entrò in un negozio di dischi e non curandosi degli scaffali  dove erano esposti i vinili si diresse sicuro all’espositore delle cassette. Poco meno di un anno prima un compagno di scuola lo aveva introdotto alle gioie dell’Heavy Metal: un paio di cassette TDK dove erano copiati Somewhere In Time degli Iron Maiden e Master of Puppets dei Metallica. Erano poi seguiti mesi di intense discussioni e ascolti religiosi, mesi nei quali non si era perso un numero di H/M, all’epoca la rivista specializzata più autorevole in Italia. Quel giorno aveva appena incassato la sua paghetta settimanale ed era determinato a spenderla tutta in un botto solo. Con trepidante attesa voltò le pagine dell’espositore fino a quando trovò l’oggetto dei suoi desideri: il nuovo album degli Iron Maiden, Seventh Son of a Seventh Son.

Metallica, ...And Justice for AllAgli occhi di quel ragazzino il panorama musicale metallaro del 1988 era straordinariamente eccitante. C’erano i Glamsters e i Thrashers sempre in lotta fra di loro, c’era l’Hard Rock di Europe e Bon Jovi che tutti disprezzavano ma che tutti conoscevano, c’erano i Metallica che mettevano d’accordo tutti e alla radio passavano Appetite for Destruction dei Guns N’ Roses e Hysteria dei Def Leppard, entrambi usciti l’anno prima ma esplosi quell’estate (in totale dieci settimane al numero 1 delle classifiche di Billboard) ed entrambi ormai “storia vecchia” per i metallari più attenti. Gli Europe quell’anno pubblicarono Out of this World e i Bon Jovi New Jersey, album sotto tono rispetto ai precedenti pluri-decorati The Final Countdown e Slippery When Wet ma pur sempre in grado di avvicinare all’Heavy Metal folle di nuovi fans. I Metallica uscirono invece con …And Justice for All e cominciarono la loro scalata alle classifiche internazionali col singolo One.

Helloween, Keeper of the Seven Keys Part IIPiù tardi quello stesso anno uscì Keeper Of The Seven Keys Part 2 degli Helloween. Comprandolo a scatola chiusa, solo perché gli piaceva la copertina, il me ragazzino di cui sopra scoprì un nuovo genere musicale: quello che sarebbe poi stato chiamato Power Metal. Di solito si fa risalire la data di nascita del genere all’uscita del primo capitolo della saga delle sette chiavi degli Helloween, ma fu il 1988 che diede il vero impulso grazie anche agli album di Rage (Perfect Man), Running Wild (Port Royal), Manowar (Kings of Metal) e Vicious Rumors (Digital Dictator). I Virgin Steele pubblicarono Age of Consent che però fu un fallimento commerciale. Tra le curiosità legate al Power Metal si segnalano l’esordio dei Blind Guardian (Battallions of Fear), The Daily Horror News dei Risk (una band non priva di senso dell’umorismo) e l’album Exciter degli Exciter. Questi ultimi furono tra i primi a suonare speed metal ed ebbero una influenza non da poco sul Thrash ma si evolsero poi in una direzione più melodica, tanto che nel 1988 il batterista Dan Beehler lasciò il microfono a un nuovo cantante e la band divenne per un breve periodo un quartetto. Fecero parlare di sé anche i Sanctuary con Refuge Denied più però per la presenza di Dave Mustaine come produttore che per  la qualità pur molto buona del disco.

Robert Plant, Now And ZenQuell’anno i Led Zeppelin pubblicarono non uno ma ben due album! Vabbè si fa per dire… ma mentre Jimmy Page cominciava la sua carriera solista con Outrider Robert Plant consolidava la sua posizione con Now and Zen, che avrà anche una produzione di plastica ma a me continua a piacere come quando lo ascoltai per la prima volta. Dopo tre anni gli AC/DC tornarono a pubblicare un vero album (Blow Up Your Video), gli Scorpions fecero uscire Savage Amusement (questo sì invecchiato malissimo) e Ozzy Osbourne con No Rest for the Wicked diede un degno successore a The Ultime Sin. David Lee Roth pubblicò Skyscraper, un lavoro più maturo e per certi versi più serio del precedente Eat ‘em and Smile di un paio d’anni prima, mentre i Van Halen dimostrarono di non avere ancora digerito la dipartita del cantante rispondendo ironicamente al titolo del suo primo disco con OU812. Sempre in ambito Hard Rock gli Hurricane pubblicarono Over the Edge che divenne il loro album più di successo. Negli Hurricane militavano il bassista Tony Cavazo e il chitarrista Robert Sarzo che sono i fratelli piccoli di Carlos Cavazo e Rudy Sarzo, il primo dei quali pubblicò quell’anno QR coi Quiet Riot mentre il secondo aveva ormai lasciato la band da tempo per unirsi ai Whitesnake.

Blue Oyster Cult, ImaginosDopo quasi otto anni vede la luce il progetto Imaginos, uscito a nome Blue Öyster Cult ma in realtà concepito e messo insieme da Albert Bouchard e Sandy Pearlman. Fu così che uno dei migliori album dell’anno, nonché a tutt’oggi l’ultimo prodotto davvero eccezionale dei Blue Öyster Cult, passò quasi inosservato. Anni dopo, quando finalmente lo ascoltai insieme al resto della discografia della band, Imaginos divenne uno dei miei album preferiti di sempre e non nascondo un certo disagio nel notare che sia stato un falimento commerciale proprio nel 1988, quando cioè io ragazzino ogni settimana mi spendevo la paghetta in musica. Se solo avessi comprato questo invece di…

LA GunsDi album brutti ne abbiamo comunque comprato tutti e non è il caso di stilare classifiche in negativo. Ma un flop memorabile merita forse di essere ricordato: Cold Lake dei Celtic Frost. Questa band è famosa per aver influenzato tutto il movimento Black Metal con album come To Mega Therion del 1985 e Into The Pandemonium del 1987 ma nel 1988 se ne uscì con un album Glam! Ovvio tentativo di sfruttare l’onda del successo commerciale del genere che a quel punto degli anni ottanta aveva raggiunto l’apice. Ma non si pensi che la qualità di tutte le uscite Glam fosse per questo mediocre: Long Cold Winter dei Cinderella e Open Up and Say… Ahh! dei Poison furono conferme importanti, Wings of Heaven dei Magnum e Reach for the Sky dei Ratt ennesime prove di gran gusto, e non mancarono un live memorabile (anche se pieno di overdubs) a cura dei Dokken e un debutto di fuoco a cura dei Winger. Per non dimenticare l’omonimo degli L.A. Guns che con i Guns N’ Roses divennero esponenti di punta di un nuovo sottogenere.

Yngwie J Malmsteen - OdysseyPer gli amanti della chitarra, specialmente gli assoli alla Ritchie Blackmore, uscirono due album memorabili: Stand in Line di Impellitteri e Odyssey di Yngwie Malmsteen, non a caso con alla voce Graham Bonnet il primo e Joe Lynn Turner il secondo (entrambi con un passato nei Rainbow di Ritchie Blackmore). L’esordio della Jeff Healey Band introdusse i metallari al blues ma l’album Heavy Metal per virtuosi nel 1988 fu il quasi interamente strumentale Go Off! dei Cacophony, dove Jason Becker e Marty Friedman pubblicarono una serie di assoli così potenti da sconfinare quasi nel Thrash. Lita Ford ottenne il suo definitivo successo solista con l’album Lita e le Vixen pubblicarono il loro album d’esordio, tanto per ricordare che il girl power era già ben presente e radicato nell’Heavy Metal degli anni ottanta. E mi preme di ricordare un altro fenomeno dell’epoca: il Christian Metal, che ebbe negli Stryper il gruppo di riferimento. Quell’anno pubblicarono In God We Trust, forse l’album più debole della loro carriera ma pur sempre quello che me li fece conoscere. E che dire della prima band Heavy Metal di colore? I Living Colour uscirono con Vivid e la nostra musica preferita non fu mai più la stessa!

Megadeth, SoFar So Good... So What?In campo strettamente Thrash fu un anno prolifico: Death Angel, Destruction, Overkill e Testament pubblicarono tutti ottimi nuovi album. I Megadeth pubblicarono So Far, So Good… So What? con una formazione rimaneggiata ma un tiro sempre al massimo (In My darkest Hour rimane fra i miei pezzi preferiti di sempre), gli Slayer regalarono ai fans un’altra perla (South of Heaven) mentre gli Anthrax uscirono invece con un album un po’ sotto tono (State of Euphoria). Ma la vera sorpresa furono i Voivod che se ne uscirono con quel capolavoro che ancora oggi è Dimension Hatröss. Coroner e Mekong Delta pubblicarono i loro rispettivi secondi album (Punishment for Decadence i primi e The Music of Erich Zann i secondi). Alcuni gruppi pubblicarono album fenomenali che però rimasero relativamente sconosciuti, fra questi Anacrusis (Suffering Hour), Blind Illusion (The Sane Asylum) e Deathrow (Deception Ignored). La scena Death Metal si consolidò proprio nel 1988 quando i Death pubblicano Leprosy, l’album che per molti rappresenta l’espressione più pura del genere, e fecero il loro esordio i Bolt Thrower (In Battle There Is No Law!) e i Carcass (Reek of Putrefaction). Per non dimenticare Pestilence, Sadus e Incubus anche loro tutti al primo album. Sempre in ambito estremo si segnala il secondo disco dei Napalm Death: From Enslavement to Obliteration.

Queensryche_-_Operation_Mindcrime_coverDopo la pubblicazione di una mia lettera su H/M cominciai a intrattenere alcune amicizie epostolari. Per i lettori sotto i trent’anni forse conviene spiegare che ci fu un tempo in cui se si volevano scambiare opinioni e formare amicizie con persone relativamente lontane si doveva prendere carta e penna e “scriversi” delle lettere. Ebbene una di queste amicizie mi consigliò caldamente di ascoltare i Queensrÿche, e mi dovette incalzare anche un paio di volte, ma alla fine mi decisi a comprare la cassetta di Operation: Mindcrime a scatola chiusa. Inutile dire che a tutt’oggi considero quell’album come il migliore uscito quell’anno e tra i miei preferiti di tutti i tempi, quindi grazie pen-pal ovunque tu sia oggi! Ricordo anche il secondo album dei Crimson Glory (Transcendence) e il primo album dei King’s X e soprattutto No Exit dei Fates Warning, primo lavoro con alla voce Ray Alder.

DeathSSE la scena Italiana non produsse nulla che meriti essere ricordato? Il mio primo contatto con la scena Italiana avvenne grazie a una cassettina che mi registrò un amico: da un lato The Story of Death SS e dall’altro In Death of Steve Sylvester. Musica che mi diede i brividi per settimane e che rimane forse per questo molto in alto fra le mie preferenze. Ma a proposito di brividi, nulla mi ha mai fatto tanta paura come Them di King Diamond. Quando lo ascoltai ero assolutamente impreparato a quei caratteristici cambi di timbro del cantante e la cosa mi fece tanta soggezione che mi ci vollero mesi per prendere in mano la cassetta per la seconda volta! E poi ci sarebbero altre decine di album da nominare: scoprii i Saxon con Destiny,  i Kingdon Come pubblicarono il loro primo album, i Pantera pubblicarono il primo album con Phil Anselmo… la lista è davvero troppo lunga.

Frank Zappa, Broadway The Hard WayLontano dal metal forse l’evento più importante dell’anno in campo musicale fu l’ultimo tour di Frank Zappa. Ovviamente non si poteva sapere in anticipo che sarebbe stato l’ultimo ma il gruppo di musicisti che lo accompagnava cominciò a litigare e le divergenze divennero così insanabili che gli ultimi concerti dovettero essere cancellati. Successivamente Frank compilò tre album live da registrazioni di quel periodo la prima delle quali, Broadway the Hard Way, uscì già nel 1988.

La lista che segue rappresenta uno spaccato di quanto di meglio uscito nel 1988. Li abbiamo messi in ordine alfabetico e  non ci illudiamo di essere riusciti ad includere tutto. Da parte mia ho voluto raccontare la mia limitata esperienza, il 1988 visto con gli occhi di un ragazzino appena quattordicenne che si affacciava sulla scena metal per la prima volta in vita sua. Guardando questa lista non posso fare a meno di stupirmi nel constatare quanti di questi album ascoltai “in diretta” quello stesso anno, senza internet senza MP3 e senza servizi di streaming ma con l’aiuto di stampa specializzata, fratelli maggiori di compagni di classe e tante ma proprio tante “cassette vuote”!

AC/DC — Blow Up Your Video
Blue Öyster Cult — Imaginos
Cinderella — Long Cold Winter
Coroner — Punishment for decadence
Danzig — Danzig I
Death — Leprosy
Death Angel — Frolic Through the Park
Deathrow — Deception Ignored
Fates Warning — No Exit
Helloween — Keeper of the Seven Keys part 2
Iron Maiden — Seventh Son of a Seventh Son
King Diamond — Them
King’s X — Out of the silent planet
L.A. Guns — LA Guns
Living Colour — Vivid
Malmsteen, Yngwie — Odyssey
Manowar — Kings of Metal
Megadeth — So far, So good, so what?
Metallica — …And Justice For All
Nuclear Assault — Survive
Overkill — Under the Influence
Poison — Open up and say… Ahh!
Queensrÿche — Operation: Mindcrime
Rage — Perfect Man
Riot — Thundersteel
Sieges Even — Life Cycle
Slayer — South of Heaven
Suicidal Tendencies — How will I laugh
Vicious Rumors — Digital Dictator
Voivod — Dimension Hatröss
Winger — Winger

P.S. A scanso di equivoci vorrei precisare che le immagini inserite in questo articolo rappresentano le cassette che comprai quell’anno. Con le sole eccezioni di Imaginos e Broadway The Hard Way, che ho inserito per l’immenso valore affettivo che attribuisco a entrambi.

Le stelle della scena Hard & Heavy!